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Arcipelago – Affinità, organizzazione informale e progetti insurrezionali

Tuesday, June 11th, 2013

Perché tornare sulle questioni dell’affinità e dell’organizzazione informale? Di certo non perché manchino i tentativi di esplorare e approfondire questi aspetti dell’anarchismo, perché le discussioni di ieri come di oggi non ne siano in parte ispirate, o non esistano testi che abbordano tali questioni magari in maniera più dinamica. Ma certi concetti esigono senza dubbio uno sforzo analitico e critico permanente, se non vogliono perdere il loro significato a furia di essere frequentemente usati e ripetuti. Altrimenti le nostre idee rischiano di diventare dei luoghi comuni, delle «evidenze», terreno fertile per il gioco idiota della competizione di identità dove la riflessione critica diventa impossibile. Capita che la scelta dell’affine venga liquidata frettolosamente da alcuni come se si trattasse di un rapporto arroccato sulle proprie idee, un rapporto che non permetterebbe un contatto con la realtà e nemmeno con i compagni. Mentre altri agitano l’affinità come uno stendardo, una sorta di parola d’ordine — e come con tutte le parole d’ordine, spesso è il vero significato, profondo e propulsivo, ad esserne la prima vittima.

 

Nessuna attività umana è possibile senza organizzazione, almeno se per «organizzazione» si intende il coordinamento degli sforzi mentali e fisici ritenuti necessari per raggiungere uno scopo. Da questa definizione si ricava un aspetto importante spesso dimenticato: l’organizzazione è funzionale, essa è orientata verso la realizzazione di qualche cosa, verso l’azione nel senso più ampio del termine. Coloro che oggi sollecitano tutti ad organizzarsi e basta, per mancanza di scopi chiari e nell’attesa che da questo primo momento organizzativo derivi automaticamente tutto il resto, erigono il fatto di organizzarsi fine a se stesso. Nel migliore dei casi, forse sperano che ne scaturirà una prospettiva, una prospettiva che non sono capaci di immaginare da soli o di pensare a grandi linee, ma che diventerebbe possibile o palpabile solo in qualche ambiente collettivo e organizzato. Nulla di meno vero. Una organizzazione è fruttuosa quando è nutrita, non da una presenza banalmente quantitativa, ma da individui che la utilizzano per realizzare uno scopo comune. Detto altrimenti, è vano credere che organizzandosi si risolveranno le questioni del come, cosa, dove e perché lottare grazie alla magia del collettivo. Nel migliore dei casi — o il peggiore, dipende dai punti di vista — si potrà magari trovare un carro su cui saltare, un carro trainato da qualcun altro, e ci si potrà accomodare nel ruolo piuttosto spiacevole di seguace. Allora è solo una questione di tempo prima che, disgustati e insoddisfatti, si rompa con questa organizzazione.

 

L’organizzazione è quindi subordinata a ciò che si vuole fare. Per gli anarchici, bisogna inoltre aggiungere a ciò il legame diretto che deve esistere fra ciò che si vuole fare, l’ideale per cui si lotta e il modo di ottenerlo. Malgrado tutto il mascheramento contemporaneo e i giochi di parole, nei meandri più o meno marxisti alcuni partiti sono considerati come un mezzo adeguato per combattere i partiti politici. Si considera l’affermazione politica delle forze produttive avanzata ancora oggi (in tempi in cui la vastità del disastro industriale è sotto gli occhi di tutti) una strada per farla finita con i rapporti capitalisti. Alcuni vogliono prendere delle misure per rendere superflue tutte le altre misure. Gli anarchici non hanno nulla a che vedere con tutti questi giochi di prestigio, per loro fini e mezzi devono coincidere. L’autorità non può essere combattuta con forme organizzative autoritarie. Quelli che trascorrono il tempo a spulciare le finezze della metafisica, intendendo in questa affermazione un argomento contro l’uso della violenza, un alibi o una capitolazione da parte degli anarchici, dimostrano con ciò soprattutto il loro desiderio profondo di ordine e armonia. Ogni rapporto umano è conflittuale, il che non vuol dire che sia per forza autoritario. Parlare di simili questioni in termini assoluti è certo difficile, il che non toglie che la tensione verso la coerenza sia davvero una esigenza vitale.

 

Se oggi pensiamo che l’affinità e i gruppi d’affinità siano i più adeguati per la lotta e l’intervento anarchico nella conflittualità sociale, è perché tale considerazione è intimamente legata a come concepiamo questa lotta e questo intervento. Esistono infatti due strade per affrontare la questione, strade che non sono diametralmente opposte, ma che nemmeno coincidono del tutto. Da un lato, c’è l’esigenza non-negoziabile di coerenza. La questione che si pone allora è in quale misura certe forme organizzative anarchiche (pensiamo alle organizzazioni di sintesi con dei programmi, delle dichiarazioni di principio e dei congressi come le federazioni anarchiche o le strutture anarco-sindacaliste) rispondano alla nostra idea di anarchismo. Dall’altro, c’è la questione dell’adeguamento a tale o talaltra struttura organizzativa. Questo adeguamento sostituisce la questione più sul campo delle condizioni storiche, degli scopi che si vogliono raggiungere (e dunque della forma organizzativa che si considera più adatta per questo), dell’analisi della situazione sociale ed economica… Alle grandi federazioni avremmo preferito, anche in altre epoche, piccoli gruppi agili e autonomi, ma sul piano dell’adeguamento alla situazione difficilmente si può escludere a priori che, in determinate condizioni, la scelta di una organizzazione anarchica di lotta specifica e federata, di una costellazione di guerriglia… possa (o piuttosto, abbia potuto) rispondere a certi bisogni.

 

Noi pensiamo che contribuire a rotture insurrezionali o svilupparle sia oggi l’intervento anarchico più adeguato per lottare contro il dominio. Per rotture insurrezionali intendiamo una rottura voluta, foss’anche temporanea, nel tempo e nello spazio del dominio; quindi una rottura necessariamente violenta. Sebbene tali rotture abbiano anche un aspetto quantitativo (trattandosi di fenomeni sociali che non possono essere ridotti a una qualsivoglia azione di un pugno di rivoluzionari), esse sono orientate verso la qualità dello scontro. Prendono di mira le strutture e i rapporti di potere, rompono con i loro tempi e spazi e permettono, attraverso le esperienze fatte e i metodi utilizzati di auto-organizzazione e di azione diretta, di rimettere in discussione e di attaccare sempre più aspetti del dominio. In breve, le rotture insurrezionali ci sembrano necessarie sul cammino verso la trasformazione rivoluzionaria dell’esistente.

 

Da tutto ciò deriva logicamente la questione di sapere come gli anarchici possano organizzarsi per contribuire a una simile rottura. Senza rinunciare alla diffusione sempre importante delle idee anarchiche, a nostro avviso non si tratta oggi di radunare ad ogni costo quante più persone attorno all’anarchismo. In altri termini, non pensiamo che occorrano forti organizzazioni anarchiche con una diffusione in grado di attrarre gli sfruttati e gli esclusi, preludio quantitativo a queste organizzazioni che successivamente daranno (quando i tempi saranno maturi) il segnale dell’insurrezione. Pensiamo inoltre che le rotture insurrezionali non siano pensabili ai giorni nostri partendo da organizzazioni che difendono gli interessi di un gruppo sociale particolare, a partire per esempio da forme più o meno anarcosindacaliste. L’integrazione di tali organizzazioni nella gestione democratica risponde infatti perfettamente all’economia capitalista contemporanea; è questa integrazione ad aver reso impossibile qualsiasi passaggio sperato da una posizione difensiva ad una offensiva. Per finire, ci sembra allo stesso modo impossibile che oggi una forte «cospirazione» sia capace, attraverso interventi chirurgici, di far vacillare il dominio e trascinare gli sfruttati nell’avventura insurrezionale; al di là delle stesse obiezioni che si possono fare contro questa maniera di considerare le cose. In contesti storici in cui il potere era molto centralizzato, come nella Russia zarista, si poteva ancora da qualche parte immaginare l’ipotesi di un attacco diretto contro il cuore (in questo caso, l’assassinio dello zar) come preludio alla rivolta generalizzata. In un contesto di potere decentrato come quello che conosciamo, la questione non può più essere di colpire un cuore, e tanto meno sono immaginabili scenari in cui un colpo ben assestato possa fare tremare il dominio sulle sue fondamenta (il che ovviamente non toglie nulla alla validità di un colpo ben assestato). Bisogna quindi esplorare altri percorsi.

 

Affinità e gruppi di affini

Molte persone arretrano davanti all’affinità. In effetti è molto più facile e meno esigente aderire a qualcosa, che si tratti di un’organizzazione, di un’assemblea permanente o di un ambiente e di riprenderne e riprodurne le caratteristiche formali, piuttosto che intraprendere la ricerca lunga e mai compiuta di compagni con cui condividere idee, analisi ed eventuali progetti. Perché l’affinità è esattamente questo: la conoscenza reciproca fra compagni, analisi condivise che conducano a prospettive d’azione. L’affinità è così orientata da un lato verso l’approfondimento teorico e dall’altro verso l’intervento nella conflittualità sociale.

 

L’affinità si situa radicalmente sul campo qualitativo. Essa aspira alla condivisione di idee e metodi, e non ha come scopo una crescita all’infinito. Ora, benché camuffata, la preoccupazione principale di numerosi compagni sembra restare il numero. Quanti siamo? Come fare per essere più numerosi? Dalla polarizzazione su tale questione e dalla constatazione che, se oggi non siamo numerosi, questo è dovuto anche al fatto che molti non condividono le nostre idee (no, anche non inconsciamente), deriva la conclusione che bisognerebbe, per aumentare numericamente, evitare di mettere troppo l’accento su certe idee. Ai giorni nostri sono rari coloro che tentano ancora di vendere tessere per qualche organizzazione rivoluzionaria, destinata a crescere quantitativamente e aspirante a rappresentare sempre più sfruttati; ma sono in tanti a pensare che la maniera migliore di conoscere altre persone consista nell’organizzare attività «consensuali» come per esempio bar autogestiti, laboratori, concerti, ecc. Di sicuro attività del genere possono avere un loro ruolo, ma quando si affronta l’argomento di approfondire l’affinità si parla di qualcosa d’altro. L’affinità non è la stessa cosa dell’amicizia. Certo, le due non si escludono, ma non è perché si condividono certe analisi che si va anche a letto assieme, e viceversa. Così come non è perché si ascolta la stessa musica che si intende lottare nello stesso modo contro il dominio.

 

La ricerca dell’affinità avviene su un piano interindividuale. Non è un evento collettivo, un affare di gruppo, in cui sarà sempre più facile seguire che riflettere da sé. L’approfondimento dell’affinità è evidentemente una questione di pensiero e azione, ma in fondo l’affinità non risulta tanto dal fatto di portare avanti un’azione insieme, è piuttosto il punto di partenza per poter passare all’azione. Sì, è ovvio, obietteranno alcuni, ma questo allora significa che non incontrerò molte persone che potrebbero essere buoni compagni, perché in qualche modo mi rinchiudo nell’affinità. È vero che la ricerca e l’approfondimento dell’affinità richiedono molto tempo ed energia, e che quindi non è pensabile generalizzarla a tutti i compagni. Il movimento anarchico in un paese, in una città o anche in un quartiere non può diventare un grande gruppo di affini. Non si tratta di ingrossare i diversi gruppi affini con sempre altri compagni, ma di rendere possibile la moltiplicazione di gruppi autonomi di affinità. La ricerca, l’elaborazione e l’approfondimento delle affinità porta a piccoli gruppi di compagni che si conoscono, condividono delle analisi e passano insieme all’azione.

 

La parola è insufficiente. L’aspetto «gruppo» del gruppo d’affinità è stato regolarmente criticato, a torto e a ragione. Spesso ci sono compagni che condividono la nozione d’affinità, ma si fa più complicato quando si comincia a parlare di «gruppi», che da un lato superano il solo carattere interindividuale e dall’altro sembrano limitare la «crescita». Le obiezioni consistono il più delle volte nel sottolineare i meccanismi perniciosi dell’«interiore/esteriore», del «dentro/fuori» che tali gruppi d’affinità possono generare (come per esempio il fatto di rinunciare al proprio percorso per seguire quello degli altri, la sclerosi e i meccanismi che possono derivarne come certe forme di competizione, di gerarchia, di sentimenti di superiorità o di inferiorità, la paura…). Ma questi problemi si pongono con qualsiasi genere di organizzazione e non sono legati esclusivamente all’affinità. Si tratta piuttosto di riflettere su come evitare che la ricerca d’affinità porti a una stagnazione e ad una paralisi piuttosto che a un’espansione, a una diffusione e ad una moltiplicazione.

 

Un gruppo di affinità non è la stessa cosa di una «cellula» di partito o di una formazione di guerriglia urbana. Siccome la sua ricerca è permanente, l’affinità evolve in permanenza. Può «aumentare» fino al punto in cui un progetto condiviso diventa possibile, o al contrario può anche «diminuire» fino a rendere impossibile fare alcunché insieme. L’arcipelago dei gruppi d’affinità muta quindi costantemente. Spesso questo costante cambiamento viene d’altronde messo all’indice dai critici: non si può costruire nulla a partire da ciò, perché non è stabile. Noi siamo convinti del contrario: non c’è nulla da costruire su forme organizzative che ruotano su di sé, fuori dagli individui che ne fanno parte. Poiché presto o tardi, al primo contraccolpo, pioveranno scuse e sotterfugi. Il solo terreno su cui possiamo costruire è la ricerca reciproca di affinità.

 

Infine, vogliamo anche sottolineare che questo modo di organizzarsi ha l’ulteriore vantaggio di essere particolarmente resistente alle misure repressive dello Stato, perché non ha bastioni rappresentativi, strutture o nomi da difendere. Laddove formazioni cristallizzate e di grandi organizzazioni possono essere smantellate quasi d’un colpo per il fatto stesso d’essere piuttosto statiche, i gruppi d’affinità restano agili e dinamici anche quando la repressione colpisce. Siccome i gruppi d’affinità si basano sulla conoscenza reciproca e sulla fiducia, i rischi d’infiltrazione, di manipolazione e di delazione sono molto più limitati che nelle grandi strutture organizzative a cui le persone possono aderire formalmente o nei vaghi ambienti in cui basta riprodurre certi comportamenti per far parte del club. L’affinità è una base assai difficile da corrompere, proprio perché parte dalle idee ed evolve anche in funzione di esse.

 

Organizzazione informale e progettualità

Siamo del parere che gli anarchici abbiano maggiore libertà di movimento e di autonomia per intervenire nella conflittualità se si organizzano in piccoli gruppi basati sull’affinità, piuttosto che in grandi formazioni o in forme organizzative quantitative. Beninteso, è auspicabile e spesso necessario che questi piccoli gruppi riescano quanto meno ad accordarsi. Non per trasformarsi in moloch o falange, ma per realizzare scopi specifici e condivisi. Questi scopi determinano allora l’intensità della cooperazione, dell’organizzazione. Non è escluso che un gruppo di affini organizzi da solo una manifestazione, ma in molti casi un coordinamento fra diversi gruppi potrebbe rivelarsi auspicabile e necessario per realizzare questo obiettivo specifico, radicato nel tempo. La cooperazione potrebbe anche essere più intensa nel caso di un progetto di lotta concepito più sul medio termine, come per esempio una lotta specifica contro una struttura del potere (la costruzione di un centro di identificazione, di una prigione, di una centrale nucleare…). In questo caso, si potrebbe parlare di organizzazione informale. Organizzazione, perché si tratta di un coordinamento di volontà, mezzi e capacità fra differenti gruppi di affini e individualità che condividono un progetto specifico. Informale, perché non si tratta di promuovere un nome qualsiasi, di rafforzare quantitativamente l’organizzazione, di aderirvi formalmente o di sottoscrivere qualche programma o dichiarazione di principio, ma di un coordinamento agile e leggero per rispondere ai bisogni del progetto di lotta.

 

In un senso, l’organizzazione informale si trova anche sul campo dell’affinità, ma essa supera il carattere interindividuale. Esiste solo in presenza di una progettualità condivisa. Una organizzazione informale è dunque direttamente orientata verso una lotta, non potendo esistere staccata da questa. Come dicevamo prima, serve a rispondere a determinate esigenze di un progetto di lotta che non possono affatto, o difficilmente, essere sostenute da un singolo gruppo d’affinità. Essa può per esempio consentire di mettere a disposizione i mezzi che si reputano necessari. L’organizzazione informale non ha quindi lo scopo di raggruppare tutti i compagni dietro la stessa bandiera o di ridurre l’autonomia dei gruppi d’affinità e delle individualità, ma di far dialogare questa autonomia. Essa non è la scappatoia per fare tutto assieme, ma è uno strumento per dare corpo e anima ad un progetto comune, attraverso gli interventi particolari dei gruppi di affini e delle individualità.

 

Cosa significa avere un progetto? Gli anarchici vogliono la distruzione di ogni autorità, si può quindi supporre che essi siano di continuo alla ricerca di modi per farlo. In altri termini, si può di sicuro essere anarchici e attivi in quanto tali senza un progetto specifico di lotta. D’altronde è ciò che accade di solito. Sia che gli anarchici seguano più o meno le direttive delle organizzazioni alle quali appartengono (cosa che sembra essere più relegata al passato), sia che essi attendano l’arrivo di conflitti a cui partecipare, o tentino di far rientrare quanti più aspetti anarchici è possibile nella loro vita quotidiana. Nessuna di queste attitudini presume la presenza di una vera progettualità — cosa che, sia chiaro, non rende ovviamente questi compagni meno anarchici. Un progetto è per contro basato su un’analisi del contesto sociale, economico e politico in cui ci si trova, da cui si distilla una prospettiva che permetta di intervenire nel breve e medio periodo. Un progetto racchiude quindi un insieme di analisi, idee e metodi, coordinati per raggiungere uno scopo. Possiamo ad esempio pubblicare un giornale anarchico perché siamo anarchici e vogliamo diffondere le nostre idee. Bene, ma un approccio più progettuale esigerebbe un’analisi delle condizioni nelle quali una pubblicazione con un certo taglio venga ritenuta adatta per intervenire nella conflittualità. Possiamo decidere di lottare contro le deportazioni, contro il deterioramento delle condizioni di sopravvivenza, contro il carcere… perché tutte queste cose sono semplicemente incompatibili con le nostre idee; sviluppare un progetto necessiterebbe un’analisi per comprendere dove un intervento anarchico sarebbe più interessante, quali metodi utilizzare, come poter pensare di dare impulso o intensificare una tensione conflittuale in un dato lasso di tempo. Va da sé che simili progetti sono spesso l’occasione di una organizzazione informale, di un coordinamento fra differenti gruppi e individualità anarchiche.

 

L’organizzazione informale non può quindi essere fondata, costituita o abolita. Essa nasce in modo del tutto naturale secondo i bisogni di un progetto di lotta e scompare quando questo progetto viene realizzato o quando si valuta che non è più possibile o adeguato cercare di realizzarlo. Essa non coincide con l’insieme della lotta in corso: le tante forme organizzative, i diversi luoghi di incontro, le assemblee, ecc. prodotti da una lotta esisteranno indipendentemente dall’organizzazione informale, il che non vuol dire che gli anarchici non possano anche essere presenti.

 

Gli «altri»

Ma fin qui abbiamo parlato soprattutto delle forme organizzative fra anarchici. Senza dubbio, numerose rivolte forniscono preziosi suggerimenti che mostrano paralleli con quanto abbiamo appena detto. Si pensi per esempio alle rivolte degli ultimi anni nelle metropoli. Numerosi ribelli si organizzano in piccoli gruppi agili. O pensiamo alle sommosse dall’altra parte del Mediterraneo. Non c’è stato bisogno di una forte organizzazione o di qualche rappresentanza degli sfruttati per scatenare quei sollevamenti, la loro colonna vertebrale era costituita dalle molteplici forme informali d’auto-organizzazione. Beninteso, con ciò non ci siamo espressi sul «contenuto» di quelle rivolte, ma senza forme organizzative piuttosto antiautoritarie, sarebbe del tutto impensabile che esse vadano in una direzione liberatrice e libertaria.

 

È ora di dire addio una volta per tutte ai riflessi politici, ancor più in questi tempi in cui le rivolte non rispondono (o non più) alle prerogative politiche. Le insurrezioni e le rivolte non devono essere dirette, né dagli autoritari, né dagli anarchici. Non chiedono di essere organizzate in qualche grande formazione. Ciò non toglie che il nostro contributo a tali avvenimenti, a fenomeni veramente sociali, non possa restare semplicemente spontaneo, se aspira ad essere un contributo qualitativo — esso richiede quindi una certa organizzazione e progettualità. Ma gli sfruttati e gli esclusi non hanno bisogno degli anarchici per rivoltarsi o insorgere. Noi possiamo essere tutt’al più un elemento supplementare, benvenuto o meno, una presenza qualitativa. Ma che nondimeno rimane importante, se vogliamo far aprire le rotture insurrezionali in un senso anarchico.

 

Se gli sfruttati e gli esclusi sono perfettamente capaci di rivoltarsi senza gli anarchici e senza il loro concorso, non per questo siamo pronti a rinunciare a cercare dei punti e un terreno in cui si possa lottare insieme con loro. Questi punti e terreni non sono conseguenze «naturali» o «automatiche» delle condizioni storiche. L’incontro fra gruppi d’affinità, come l’organizzazione informale degli anarchici e degli sfruttati che sono disposti a lottare, avviene meglio nella lotta stessa, o almeno in una proposta di lotta. La necessità di diffondere ed approfondire le idee anarchiche è innegabile e in nessun momento bisognerebbe nasconderle, relegarle nelle retrovie o camuffarle in nome di una qualsivoglia strategia, ma in un progetto di lotta insurrezionale non si tratta di convertire quanti più sfruttati ed esclusi alle proprie idee, quanto piuttosto di rendere possibili esperienze di lotta con la metodologia anarchica e insurrezionale (attacco, auto-organizzazione e conflittualità permanente). A seconda delle ipotesi e dei progetti, occorre effettivamente riflettere sulle forme organizzative che può assumere questo incontro fra anarchici e coloro che vogliono lottare su una base radicale. Queste forme organizzative non possono certamente essere delle costellazioni esclusivamente anarchiche, visto che altri ribelli vi partecipano. Esse non sono quindi di supporto per «promuovere» l’anarchismo, ma hanno lo scopo di dare forma e sostanza alla lotta insurrezionale.

 

In alcuni testi, redatti a partire da una serie di esperienze, si parla di «nuclei di base» formati nell’ambito di un progetto specifico di lotta, di forme organizzative basate sulle tre caratteristiche fondamentali della metodologia insurrezionale. Gli anarchici vi prendono parte, ma insieme ad altri. In un certo senso, sono soprattutto punti di riferimento (non dell’anarchismo, ma della lotta in corso). Funzionano un po’ come polmoni della lotta insurrezionale. Quando questa lotta è intensa coinvolge molte persone, che diminuiscono quando la temperatura ridiscende. La denominazione di tali forme organizzative ha ovviamente poca o nessuna importanza. Si tratta di scorgere, nell’ambito di certi progetti di lotta, se simili forme organizzative sono immaginabili e necessarie. Bisogna inoltre sottolineare che non si tratta di collettivi, di comitati, di assemblee di quartiere, ecc. formati ancor prima e che hanno di solito lo scopo di durare, la cui composizione è raramente antipolitica e autonoma (vista la presenza di elementi istituzionali). I «nuclei di base» si formano all’interno del progetto di lotta e non hanno che uno scopo concreto: attaccare e distruggere un aspetto del dominio. Non sono quindi organizzazioni parasindacali che difendono gli interessi di un gruppo sociale (dei comitati di disoccupati, delle assemblee di studenti…), ma occasioni organizzative orientate verso l’attacco. Le esperienze di auto-organizzazione e di attacco non garantiscono ovviamente che in una prossima lotta gli sfruttati non accolgano o non tollerino più elementi istituzionali. Ma senza quelle esperienze, questo genere di reazione sarebbe pressoché impensabile.

 

Per riassumere, a nostro avviso non si tratta di costituire delle organizzazioni per «attirare le masse» o per organizzarle, ma di sviluppare e mettere in pratica proposte concrete di lotta. All’interno di queste proposte di lotta, dal carattere insurrezionale, bisogna quindi riflettere sulle forme organizzative ritenute necessarie e adeguate per realizzare la proposta d’attacco. Sottolineiamo ancora che queste forme organizzative non implicano per forza delle strutture con riunioni, luoghi di incontro, ecc., ma che esse possono anche nascere direttamente nella strada, nei momenti di lotta. In certi luoghi ad esempio può essere più facile creare dei «punti di riferimento» o dei «nuclei di base» con altri sfruttati interrompendo la routine, innalzando una barricata in strada… piuttosto che attendere che tutti vengano ad un appuntamento per parlare della possibilità di una barricata. Questi aspetti non possono essere lasciati totalmente al caso e alla spontaneità. Una progettualità permette di rifletterci sopra e di valutare le differenti possibilità e la loro pertinenza.

 

In breve

Se la questione non è più come organizzare le persone per la lotta, essa diventa come organizzare la lotta. Pensiamo che degli arcipelaghi di gruppi di affinità, indipendenti gli uni dagli altri, che possono associarsi secondo prospettive condivise e progetti concreti di lotta, costituiscano la maniera migliore per passare direttamente all’offensiva. Questa concezione offre la più grande autonomia e il più ampio campo d’azione possibile. Nell’ambito di progetti insurrezionali, è necessario e possibile trovare modi di organizzarsi informalmente che permettano l’incontro fra anarchici e altri ribelli, forme organizzative non destinate a perpetuarsi, ma orientate verso uno scopo specifico e insurrezionale.

 

[Salto -subversion & anarchie-, n. 2, Bruxelles, novembre 2012;

tradotto da Finimondo.org )

 

In lotta col tempo

Tuesday, June 11th, 2013

Il tempo è denaro. Se lanciassimo tutto il denaro del mondo in un implacabile mare di fuoco, il tempo si fermerebbe? Si pietrificherebbe ogni cosa, e l’eternità sfiderebbe immutabilmente i venti? O verrebbe tutto ridotto in cenere e in una manciata di secondi quelle ceneri sarebbero gettate in tutte le direzioni diventando invisibili?

Il movimento generato sarebbe tale che il tempo non avrebbe più alcuna influenza, e non potrebbe che assistere impotente allo scorrere degli avvenimenti…

Vivere significa lottare. Singolare il numero di persone che sarebbero d’accordo con questo, ciascuno, forse, attribuendovi un altro significato. E tuttavia. La sveglia suona e ci catapulta sul ring, tentiamo di ricordare ma, di fatto, non sappiamo più se nel frattempo abbiamo mai lasciato quel ring. Lottare col tempo. Il pensiero di poter vincere ci fa restare sul ring, poco importa a che punto la scena diventi oscena. Le regole sono fissate, e chiunque rispetti le regole si rende conto che la resistenza è la migliore carta vincente.

L’operaio o l’impiegato sa che le lancette dell’orologio girano, che la spartizione è lungi dall’essere equa, ma che se rimarrà abbastanza a lungo all’interno delle mura di una fabbrica o di un ufficio, il resto del tempo gli apparterrà. È doloroso vedere che di recente è stato mangiucchiato ancora qualche anno, la resistenza sarà di nuovo messa a dura prova. Anche per il disoccupato le lancette girano, ma questo non gli reca danno perché può usare il suo tempo oppure affondare sempre più perché non sa cosa farsene di tutto quel tempo, che preferirebbe restituire il più velocemente possibile ad un padrone o ad un’azienda. Il padrone adora il tempo. Vede l’evoluzione sul suo conto in banca e la fine del mese non gli fa paura. Anche se il suo sonno è di tanto in tanto disturbato dai lavoratori che rivendicano più tempo per se stessi col sabotaggio e lo sciopero.

E poi ci sono quelli che vogliono liberarsene per sempre. Si guardano attorno e rubano il tempo ovunque possono, distogliendolo da quello che si vorrebbe che fosse, attaccando ciò che rende immutabile quel tempo e che tuttavia dipende da noi.

Il mondo dei meccanismi di acciaio e dei desideri di ghiaccio sa ammaliare sempre più abilmente il tempo per metterlo al servizio del suo ritmo necessario. Mettendo noi al servizio del suo ritmo necessario. Così le strade e i treni sono straripanti, soprattutto al mattino presto e a tarda sera, di tutti coloro che pagano la loro corsa contro il tempo della propria vita. Senza rendersi conto che il tempo ha già vinto, vincerà sempre finché scorrerà al servizio di questo mondo. Eppure in genere si confonde il premio di consolazione col primo premio, e tutti fanno rientro a casa pensando di aver guadagnato tempo. La loro malsana venerazione tuttavia può solo provarci che il tempo non ci appartiene mai molto a lungo. Anche per chi riuscisse sul serio a strapparlo per qualche istante ai suoi guardiani abituali, il tempo rimarrebbe un nemico imbattuto. Per quelli che, malgrado loro, non ne trovano per questi vagabondaggi di conquista, il tempo resta un nemico incontrastato, un padrone eccellente.

E se non volessimo più attenuare il peso del tempo che grava sulle nostre spalle? Quale gioia sarebbe mandare in frantumi tutti gli orologi, per non doverli più guardare? Che festa indescrivibile, quasi impossibile da concepire, espropriare di colpo tutto il tempo dal quotidiano e dai suoi padroni? Non per tornare indietro, o per fermare il tempo, ma per renderlo definitivamente estraneo alla sua influenza, e poi abbandonarlo all’oblio…

 

[da Salto, subversion & anarchie, n. 1, Bruxelles, maggio 2012

tradotto da Finimondo.org)

 

Grecia – “Niente e finito. Tutto comincia adesso.”

Thursday, March 21st, 2013

Lo sapevano tutti che non poteva durare ancora a lungo. La «mina vagante» greca, come veniva chiamata dai broker di mezzo mondo, prima o poi sarebbe esplosa. Da un paio di anni il paese vive sull’orlo del precipizio, boccheggiando e prendendo tempo. Nel dicembre 2008 l’uccisione di Alexis è stata solo la scintilla che ha fatto divampare una rivolta che era già nell’aria, di fronte a condizioni di vita che si facevano insostenibili. Le lacrime promesse un anno fa dal ministro dell’economia sono state sì versate, ma attraverso uno stillicidio lento anche se non proprio indolore. Infatti, per tutto questo periodo, con alti e bassi, le proteste hanno continuato a lievitare. Più i mesi passavano, più il cappio del Fondo Monetario Internazionale e dell’Unione Europea si stringeva e più diventava evidente che nulla poteva impedire alla popolazione greca di scendere in strada e protestare. Che questa situazione di stallo, di apnea, non potesse continuare a lungo, lo sapevano tutti. Prima o poi, s’imponeva una scelta. Drastica e radicale.

Ieri, domenica 12 febbraio 2012, questa scelta è stata compiuta. Il Parlamento doveva varare in giornata il decreto onde approvare le misure di austerità imposte dalla cosiddetta Troika in cambio di un prestito miliardario. I termini dell’accordo non sono noti, ma si sa che prevedono liberalizzazioni, tagli della spesa sociale, licenziamenti di massa nel settore pubblico, riduzione vertiginosa di salari e di pensioni già ai minimi termini. In due parole: basta vaselina.

Ma ieri, 12 febbraio 2012, non è stato solo il governo ad aver fatto la sua scelta. Nel pomeriggio, appena cessata un diluvio di pioggia, le strade di Atene e di altre città greche si sono riempite di donne e uomini che non potevano starsene chiusi in casa ad attendere che la televisione annunciasse la fine di ogni loro speranza. Una folla enorme, incalcolabile. Stanchi? Certo. Indignati? Senz’altro. Ma, soprattutto, furiosi. Nonostante numerosi arresti preventivi scattati nella mattinata, nonostante la polizia avesse circondato la facoltà occupata di Giurisprudenza tentando invano di impedire agli occupanti di partecipare alla manifestazione, piazza Syntagma, davanti al Parlamento greco, si è riempita rapidamente di gente venuta da tutte le parti. E quando in mezzo a quella varia umanità sono comparsi i manifestanti incappucciati, armati di bastoni e molotov, quella folla straripante ha applaudito. Perché, a detta degli stessi giornalisti, l’ostilità nei confronti di ogni rappresentante dello Stato era palpabile fra tutti i presenti. E questa volta, mentre gli scontri iniziavano, mentre l’aria si faceva acre per il fumo dei lacrimogeni, il servizio d’ordine del sindacato di sinistra — che pochi mesi fa si era schierato servilmente a protezione del Parlamento — non riusciva nemmeno a raggiungere la piazza.

Così, mentre dentro il palazzo la classe politica si preparava a capitolare all’economia, fuori gli esseri umani si battevano per la vita. Per farlo, non hanno nemmeno dovuto attendere di conoscere l’esito della votazione finale. Il fuoco greco, enigma irrisolvibile e quindi inestinguibile, ha bruciato quanto ha trovato sulla sua strada. Decine e decine di edifici — fra banche, negozi, grandi magazzini, biblioteche, cinema… — sono stati dati alle fiamme. Fra questi anche la banca Marfin, la stessa al cui interno erano morti i tre impiegati durante la manifestazione del 5 maggio 2010. Rasa al suolo. Il centro della città è completamente avvolto dal fumo degli incendi e dai gas lacrimogeni. Le strade sono stracolme di persone, vengono erette barricate, un po’ dappertutto si registrano violenti scontri con le forze dell’ordine.

Ma questa non è la solita cronaca greca, come siamo ormai abituati a sentirla (e ad ammirarla) da anni. Perché ieri qualcosa è cambiato. La decisione definitiva è stata presa e… non si può più tornare indietro. Le violente cariche della polizia non hanno impedito ai manifestanti di tornare più volte in piazza Syntagma. Le bottiglie molotov sono state accompagnate da nuovi ordigni incendiari, ancora più potenti. I temuti motociclisti della polizia Delta non fanno più tanta paura, dopo che una fune tesa in mezzo alla strada  ha dato in pasto ai manifestanti una loro unità. Il comune di Atene è stato occupato (e subito sgomberato). Alcuni commissariati di polizia, come ad Acropolis ed Exarchia, sono stati assaltati (numerosi poliziotti sono rimasti feriti e le volanti sono andate in fumo). L’abitazione privata di Costas Simitis (primo ministro dal 1996 al 2004) è stata attaccata. Ed a Omonoia, quartiere della capitale, un’armeria è stata saccheggiata. Non è più una rivolta…

Non è perciò un caso se la facoltà di Giurisprudenza, occupata da anarchici ed antiautoritari e considerata roccaforte della rivolta, è stata ieri circondata e presa ripetutamente d’assalto dalle forze dell’ordine. Inutilmente. Nonostante ci siano stati feriti fra gli occupanti, l’occupazione resiste ed annuncia: «Niente è finito. Tutto comincia adesso». Inoltre, se coloro che vengono indicati come i provocatori dei disordini sono stati ieri circondati fin dal primo pomeriggio, chi si è battuto dalle 17 alle 24 in tutte le strade di Atene?

E pensate che sia solo la capitale ad ardere? A Salonicco ci sono stati scontri con le forze dell’ordine, mentre le campane di una chiesa suonavano come a dare l’allarme generale. Manifestazioni di protesta anche a Patrasso, dove nei giorni scorsi sono avvenuti degli espropri nei supermercati con successiva distribuzione gratuita di beni. A Volos, i manifestanti prima hanno assaltato l’agenzia delle entrate, distruggendo i documenti che si trovavano all’interno, poi hanno dato alle fiamme il municipio. Invece a Corfù sono stati attaccati e distrutti completamente gli uffici di alcuni politici socialisti, fra cui quello dell’ex ministro della Giustizia Dendias. Occupazioni di comuni e prefetture si registrano in molti paesi.

E mentre Atene veniva messa a ferro e fuoco, nel tentativo di rendere digeribile il voto del Parlamento il ministro delle Finanze Venizelos ha dichiarato: «La scelta non è tra i sacrifici e non fare sacrifici, ma tra i sacrifici e qualcosa di inimmaginabile». Ed è vero. Ieri, 12 febbraio 2012, il governo greco ha scelto i sacrifici per i suoi sudditi. È quello che faranno domani il governo italiano, spagnolo, portoghese, belga… Chi non li accetta è inutile che invochi uno Stato più giusto, un mercato più equo, o il rispetto dei diritti umani. Ad Atene, culla della civiltà, la democrazia ha infine gettato la sua maschera d’ipocrisia. A chi non vuole vivere in ginocchio non resta che cimentarsi con qualcosa di inimmaginabile.

L’insurrezione.

 

[13/2/2012]

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Blanqui o l’insurrezione di Stato

Thursday, March 21st, 2013
Con Louis Auguste Blanqui (1805-1881) potremmo al massimo sentirci debitori di uno slogan e di un libro. Il primo è quel Né Dio né Padrone che diede il titolo al giornale da lui fondato nel novembre 1880, pochi mesi prima della sua scomparsa. Il secondo è l’avvincente L’eternità attraverso gli astri, meditazioni sull’esistenza di mondi paralleli e sull’eterno ritorno. Un grido di battaglia e un’opera filosofica di astronomia: tutto qui ciò che merita di essere ricordato di Blanqui. Il resto lo lasciamo volentieri nella pattumiera della storia, dagli altri suoi giornali (come La Patria è in pericolo) alla sua politica avanguardista ed autoritaria.
Non tutti condividono questa considerazione, tant’è che in questo ultimo periodo c’è chi si sta dando un certo da fare per riportare in auge il suo nome che sembrava destinato all’oblio. La sua riscoperta è stata iniziata dai sovversivi di stampo autoritario più vitaminici e meno ingessati, abili annusatori dell’aria del tempo. Di fronte al franare sempre più impetuoso di questa società, di fronte al continuo divampare dei fuochi delle sommosse, si saranno accorti che dietro l’angolo è più probabile (ed anche più desiderabile) che sia in arrivo un’insurrezione piuttosto che una vittoria elettorale dell’estrema sinistra (che si ritroverebbe per altro a dover gestire e risolvere una situazione senza vie d’uscita indolori). Ora, da questo punto di vista, avrebbero corso seriamente il rischio di lasciare campo libero a quei bifolchi di anarchici, i soli a non aver mai abbandonato le prospettive insurrezionali nemmeno negli anni più grigi di pacificazione sociale. I sinistri antenati della critica sociale, i cosiddetti “classici”, non potevano essere di grande aiuto, avendo perduto da tempo il loro smalto. Dopo che per oltre un secolo ne hanno acceso gli altarini, dopo che il loro pensiero ha fatto da faro illuminante in mezzo ad una burrasca rivoluzionaria conclusasi col più vergognoso dei naufragi, i loro nomi non offrono più alcuna sicurezza. Anzi, provocano veri e propri fenomeni allergici di rigetto. Blanqui, il dimenticato Blanqui, il maggior esponente dell’insurrezionalismo autoritario, ha quindi tutte le caratteristiche per essere un riferimento storico alternativo, originale, carismatico, all’altezza del tempo che viene.
Marx, che scaldava le sedie al British Museum per insegnare cosa fosse il plusvalore o la sussunzione del capitale, o Lenin al lavoro nel comitato centrale per preparare il trionfo della burocrazia di partito, diciamoci la verità, non attizzano più di tanto. Ma Blanqui, per Dio, che uomo! Innanzitutto la sua vita — protagonista di molti tentativi insurrezionali, soprannominato l’Enfermé per aver trascorso oltre 33 anni dietro le mura delle prigioni imperiali francesi — suscita un rispetto incondizionato tale da indurre ogni eventuale critica, se non al silenzio, almeno alla cautela. E poi la sua dirompente carica militante, la sua incessante agitazione, il suo fervente attivismo, si accompagnano a un linguaggio semplice ed immediato che esprime un pensiero comunista refrattario al freddo economicismo marxista. Ed è qui la sua attuale forza attrattiva. Con la mancanza di senno del poi, in quest’epoca dove gli occhi si fanno aguzzi solo per trovare alleanze, Blanqui lo possono apprezzare un po’ tutti: gli antiautoritari in fregola d’azione come gli autoritari bisognosi di disciplina. Può rappresentare la sintesi perfetta delle due anime che nel corso della storia hanno composto e diviso il movimento rivoluzionario. E se all’epoca era stato un po’ snobbato dagli eruditi del socialismo scientifico (i quali ne riconoscevano le buone intenzioni ma gli rimproveravano in fondo gli stessi difetti attribuiti a Bakunin), e decisamente contrastato dai nemici di ogni autorità, oggi — in piena eclissi del significato — ha tutte le carte in regola per riprendersi la sua rivincita.
Perché Blanqui non è solo l’agitatore permanente e focoso (e qui i libertari svengono dall’emozione), ma è anche il dirigente permanente e calcolatore (e qui si sperticano in applausi gli orfani del comunismo di Stato). Unisce il coraggio delle barricate al martirio della prigionia, l’occhio perso a scrutare il firmamento. Non formula grandi piani teorici, elaborazioni sofisticate indigeste allo striminzito stomaco contemporaneo, dà istruzioni per la presa d’armi. Non pretende una profonda riflessione, gli bastano i riflessi pronti. È l’icona rivoluzionaria perfetta da piazzare sul mercato odierno, oggi che non sono graditi i sistemi complessi su cui scervellarsi. Oggi si vogliono emozioni intense da consumare. E Blanqui non annoia con discorsi astratti, è un tipo pratico, lui, diretto, uno di quelli da ascoltare, da cui chiunque ha da imparare, quindi di cui fidarsi. Ecco perché è stato riesumato. Perché, fra le tante incarnazioni della dittatura rivoluzionaria, è il solo che abbia la possibilità di passare per un affascinante avventuriero, invece di rivelarsi fin da subito un meschino uomo di potere. Con un secolo e mezzo di ritardo, Blanqui acchiappa tutti. Avesse un profilo su Facebook, farebbe strage di «Mi piace».
Una rivalutazione, la sua, resa allettante anche per via dalla sua tattica d’azione. Di recente avete visto la classe operaia terrorizzare la borghesia oppure avete visto il sorriso aprirsi sul volto di Marchionne? Vi siete accorti di come il proletariato si stia battendo per la propria emancipazione o piuttosto di come indichi le teste calde alla polizia? Avete sentito le strade rimbombare per le masse di insorti diretti contro il Palazzo o invece per le masse di tifosi diretti verso lo stadio? Avete notato gli sfruttati appassionarsi alla critica sociale radicale o all’ultima puntata di un reality-show? Nelle sue memorie Bartolomeo Vanzetti ricorda le ore notturne trascorse sui libri, strappate con determinazione al sonno ristoratore dalle fatiche lavorative. Era un operaio, ma il suo tempo libero lo dedicava allo studio: per capire, per sapere, per non restare materia prima intrappolata negli ingranaggi del capitale (o nella dialettica di qualche intellettuale). Oggi le occhiaie dei lavoratori hanno ben altra origine. Chi vuole prendere parte alla guerra sociale in corso deve tenere conto perciò di questa ovvietà: le masse se ne infischiano della rivoluzione.
Ma questo non è più un problema, davvero, e lo sapete perché? Perché Blanqui se ne infischiava delle masse. Non ne aveva bisogno, gli bastava una elite lucida, capace, ardita, pronta a sferrare un colpo ben calibrato al momento opportuno. Le masse, come d’abitudine, si sarebbero adeguate al fatto compiuto. Insomma, anche nel bel mezzo dell’odierna alienazione capitalista, c’è chi ci ridona la speranza. Sono superati i leninisti, i quali non si rendono conto che non serve più costruire il grande partito in grado di guidare gli sfruttati. Sono superati anche gli anarchici, talmente stupidi da non accorgersi che non c’è più una coscienza da diffondere fra gli sfruttati onde evitare che finiscano in mano ai partiti. Quello che serve è quello che ci può essere, ovvero un pugno di sovversivi cospiratori in grado di elaborare ed applicare la corretta strategia. Un’incursione di mano e la questione sociale è risolta! Bisogna ammetterlo — Blanqui è l’uomo giusto riscoperto al momento giusto da persone che non possono essere altro che giuste.
Talmente giuste da guardarsi bene dal prendere in considerazione il pensiero di Blanqui nella sua sostanza, detestabile sotto molti aspetti. E lo sanno. Ne sono così consapevoli i suoi amici immaginari da limitarsi a decantarne la potenza, lo stile, il sentimento, la determinazione (tutte qualità ammirevoli, senz’altro, ma che non ci dicono granché sul conto di chi le possiede: anche Napoleone, Mussolini o Bin Laden avrebbero potuto vantarle). Ma i suoi amici reali, come il comunardo Casimir Bouis, per altro suo editore, non avevano dubbi in che cosa consistesse il prestigio di Blanqui: «egli è l’uomo di Stato più completo posseduto dalla rivoluzione». Già, la potenza blanquista, lo stile blanquista, il sentimento blanquista, la determinazione blanquista — tutte cose messe al servizio di un progetto politico ben preciso: la conquista del potere. E questo nemmeno il suo sorprendente libro di astronomia, nemmeno il suo slogan più azzeccato, riusciranno mai a farcelo dimenticare.
Chissà perché, volendo tessere le lodi di un cospiratore del passato, barricadero, perseguitato, influente sul movimento, a tanta brava gente non è venuto in mente il nome di Bakunin? Perché Bakunin è ricordato come il demone della rivolta, è sinonimo di libertà assoluta, e Blanqui è piuttosto sinonimo di dittatura. Bakunin auspicava «l’anarchia», Blanqui annunciava «l’anarchia regolare» (non è adorabile questo aggettivo?). Bakunin invocava «lo scatenamento delle cattive passioni», Blanqui prescriveva che «Nessun movimento militare deve avere luogo prima dell’ordine del comandante in capo, le barricate saranno innalzate solo nei luoghi da lui indicati» (l’autoelettosi comandante in capo, ça va sans dire, era ovviamente lui). Bakunin cercava fra i cospiratori qualcuno «pienamente convinto che l’avvento della libertà è incompatibile con l’esistenza degli Stati. Egli perciò deve volere la distruzione di tutti gli Stati insieme a quella di tutte le istituzioni religiose, politiche e sociali, quali: le Chiese ufficiali, gli eserciti permanenti, i ministeri, le università, le banche, i monopoli aristocratici e borghesi. Ciò al fine di permettere che sulle rovine di tutto questo possa finalmente sorgere una società libera, che si organizzi non più come oggi dall’alto in basso e dal centro alla periferia per mezzo di unità e di concentrazione forzata, bensì partendo dal libero individuo, dalla libera associazione e dalla comune autonoma, dal basso in alto e dalla periferia al centro, mediante la libera federazione». Blanqui cercava qualcuno che alla domanda «Subito dopo la rivoluzione, potrebbe il popolo governarsi da sé?», rispondesse «Poiché lo Stato sociale è corrotto, per passare a uno Stato sano sono necessari rimedi eroici: il popolo avrà bisogno per un certo periodo di tempo di un potere rivoluzionario»; e che magari mettesse in atto le sue disposizioni immediate quali «Sostituzione di un monopolio [di Stato] al posto di qualsiasi padrone espulso… Riunione nel demanio dello Stato di tutti i beni mobili e immobili delle chiese, comunità e congregazioni dei due sessi, come dei loro prestanome… Riorganizzazione del personale della burocrazia… Sostituzione di tutti i contributi diretti o indiretti con un’imposta diretta, progressiva, sulle successioni e sul reddito… Governo: dittatura parigina».
Se nel corso del XIX secolo Bakunin e Blanqui non sono stati solo due rivoluzionari come molti altri, se il loro nome ha acquisito tanta fama, è perché sono stati l’incarnazione di due idee diverse e contrapposte, perché hanno rappresentato di fronte al mondo intero i due possibili volti dell’insurrezione: quella anarchica contro lo Stato e quella autoritaria a favore di un nuovo Stato (prima repubblicano, poi socialista, infine comunista).
Sentirsi vicini all’uno o all’altro ancora oggi costituisce di per sé una scelta di campo inequivocabile.
Per Blanqui lo Stato rappresentava lo strumento propulsivo della trasformazione sociale, giacché «il popolo non può uscire dal servaggio che attraverso l’impulso della grande società dello Stato e ci vuole un bel coraggio per sostenere il contrario. Lo Stato infatti non ha altra missione legittima». Nel criticare le idee proudhoniane, egli sosteneva che qualsiasi teoria che pretenda di emancipare il proletariato senza fare ricorso all’autorità dello Stato gli sembrava una chimera; peggio, si trattava «forse» di un tradimento. Non che fosse così ingenuo da farsi illusioni. Semplicemente era persuaso che «benché ogni potere sia per sua natura oppressivo», cercare di farne a meno o addirittura di opporvisi equivaleva a «convincere i proletari che sarebbe facile marciare legati mani e piedi».
E chi cercasse di contrabbandare la rivalutazione dell’Enfermé come un interessamento alla pratica dell’insurrezione, necessità tecnica esente da ogni comunanza di prospettive, costui mentirebbe sapendo bene di mentire (ad eccezione naturalmente dei babbei libertari su cui non vale la pena spender parola). Perché Blanqui cercava sì un accordo «sul punto capitale, voglio dire sui mezzi pratici, che, in definitiva, sono tutta la rivoluzione», ma egli stesso non nascondeva il legame che unisce l’azione al pensiero: «Ma i mezzi pratici si deducono dai principi e dipendono pure dal giudizio degli uomini e delle cose». Uno dei suoi testi più celebrati, quelle Istruzioni per una presa d’armi che dopo i situazionisti continuano ad affascinare tanti giovani intellettuali aspiranti generali di una nuova armata rossa, non è solo un manuale ad uso degli insorti. Non a caso già nel 1931 la rivista Critique Sociale l’aveva pubblicato, non tanto perché attratta dal suo «lato strettamente “militare” anacronistico», quanto per sottolineare «il valore di questo importante contributo alla critica dei sollevamenti anarchici». Infatti quelle Istruzioni sono una continua apologia della necessità di un’autorità capace di porre fine ad una libertà considerata controproducente. Sono l’accorato grido di un uomo dell’ordine alla vista di tanto disordine — «piccole bande corrono qua e là, disarmano i corpi di guardia, prendendo polvere e armi agli archibugieri. Tutto viene fatto senza accordi né direzione, secondo la fantasia individuale». Sono un atto d’accusa contro «il difetto della tattica popolare, causa certa dei disastri. Nessun comando generale, quindi nessuna direzione… I soldati fanno soltanto di testa propria».
Insomma, se l’insurrezione esce sconfitta nonostante il coraggio e l’entusiasmo di chi vi partecipa è perché «manca l’organizzazione. Senza organizzazione, nessuna possibilità di successo». Il che sarà anche vero, ma come si ottiene questa organizzazione, questo coordinamento, questo accordo fra gli insorti? Attraverso la diffusione orizzontale, preventiva ed il più estesa possibile, di una consapevolezza, di un’attenzione, di un’intelligenza verso le necessità del momento (ipotesi libertaria), oppure attraverso l’istituzione verticale di un comando unico che pretende obbedienza da tutti, quei tutti tenuti fino a quel momento nell’ignoranza (ipotesi autoritaria)? Blanqui ovviamente ha le sue istruzioni pratiche da dare in proposito: «Un’organizzazione militare, soprattutto quando bisogna improvvisarla sul campo di battaglia, non è affare da poco per il nostro partito. Suppone un comando in capo e, fino a un certo punto, la serie abituale di ufficiali di ogni grado». Alla scopo di farla finita «con queste sommosse tumultuose di diecimila uomini isolati, che agiscono a caso, in disordine, senza nessun pensiero unitario, ciascuno nel suo angolo e secondo la propria fantasia», Blanqui non si stanca di fornire la sua ricetta: «Bisogna ripeterlo ancora: la condizione sine qua non della vittoria, è l’organizzazione, l’insieme, l’ordine e la disciplina. È difficile che le truppe resistano a lungo ad una insurrezione organizzata che agisce con tutto l’apparato di una forza governativa». Ecco qual è la pratica blanquista dell’insurrezione: un’organizzazione spietata con il nemico ma che sappia imporre al suo interno ordine e disciplina, su modello dell’apparato di una forza governativa.
A noi questo tanfo da caserma provoca solo orrore e disprezzo. Anche se in cima vi dovesse sventolare una bandiera rossa o rossonera, sarebbe sempre un luogo di costrizione e di abbrutimento. L’insurrezione che anziché svilupparsi in libertà a briglie sciolte si mettesse sull’attenti dinanzi ad una autorità sarebbe persa in partenza, sarebbe la semplice anticamera ad un colpo di Stato. Per fortuna, contro questa lugubre possibilità, si può sempre fare affidamento sull’inebriante piacere della rivolta che, una volta esplosa, è capace di mandare a monte tutti i calcoli di questi strateghi d’accatto.
Maurice Dommanget, che a Blanqui ha dedicato una vita intera di devozione, riporta il clima che regnava a Parigi durante il tentativo insurrezionale del 12 maggio 1839: «Blanqui cercava di dare ordini, di fermare le diserzioni che cominciavano, di “voler organizzare la folla”, compito difficile, quasi nessuno lo conosceva. Tutti gridavano. Tutti volevano comandare. Nessuno obbedire. Qui avvenne un litigio abbastanza vivo e sintomatico tra Barbès e Blanqui che nessuno fin’ora aveva segnalato. Barbès accusò Blanqui di aver lasciato partire tutti, Blanqui accusò Barbès di aver con la sua lentezza scoraggiato tutti e causato la partenza dei pusillanimi e dei traditori». Quando scoppia l’insurrezione, quando la normalità all’improvviso cessa di frenare le possibilità umane, quando tutti vogliono comandare perché nessuno vuole più obbedire, i sedicenti capi perdono ogni autorevolezza, si affannano inutilmente per riportare ordine, arrivano a litigare fra di loro. Il disordine delle passioni è stato e sarà sempre il migliore e più efficace antidoto contro l’ordine della politica.
Forse il modo migliore per cogliere l’abisso che separa la concezione autoritaria dell’azione insurrezionale da quella antiautoritaria è di metterle a confronto, nello stesso periodo e contesto storico. Nulla è più istruttivo a questo proposito di una comparazione tra Blanqui e Joseph Déjacque, l’anarchico francese proscritto dopo aver preso parte alle giornate del 1848. Qual è il modello organizzativo propugnato da Blanqui? Una struttura piramidale, rigidamente gerarchica, come ad esempio la sua Società delle Stagioni che ha preceduto il tentativo insurrezionale del maggio 1839: il suo primo elemento era la settimana, composta da sei membri e soggetta a una domenica; quattro settimane costituivano un mese, agli ordini di un luglio; tre mesi formavano una stagione, capitanati da una primavera; quattro stagioni costituivano un anno, comandato da un agente rivoluzionario; e questi agenti rivoluzionari costituivano assieme un comitato esecutivo, segreto, sconosciuto agli altri affiliati, il cui generalissimo non poteva che essere il solo Blanqui. Nel momento cruciale, quando infine fu decretata l’insurrezione, il comitato della Società delle Stagioni diffuse un appello al popolo in cui gli comunicava che: «Il governo provvisorio ha scelto dei capi militari per guidare il combattimento; questi capi vengono dalle vostre file, seguiteli! Vi condurranno alla vittoria. Sono nominati: Auguste Blanqui, comandante in capo…». Che le esperienze successive non gli abbiano fatto cambiare idea lo dimostrano, oltre alla già citata pubblicazione Istruzioni per una presa d’armi risalente al 1868, la sua Società repubblicana centrale del 1848 così come la Falange e i suoi gruppi clandestini di lotta del 1870. Per tutta la vita Blanqui non smise mai di complottare contro il governo in carica, ma sempre in modo militarista, gerarchico e accentratore, sempre allo scopo di istituire un comitato di salute pubblica al vertice dello Stato.
Déjacque, all’opposto, nelle note alla sua Questione rivoluzionaria (1854) evocava la possibilità e l’urgenza di passare all’attacco attraverso società segrete sollecitando la creazione di piccoli gruppi autonomi: «Che ogni rivoluzionario scelga, tra quelli su cui pensa di poter contare assolutamente, uno o due altri proletari come lui. E che in gruppi di tre o quattro, senza legame fra di loro e funzionando isolatamente, in modo che la scoperta di uno dei gruppi non conduca all’arresto di tutti gli altri, agiscano con uno scopo comune: la distruzione della vecchia società». Allo stesso modo, dalle pagine del suo giornale Le Libertaire (1858), ricordava come grazie all’incontro fra sovversivi e classi pericolose «La guerra sociale assume proporzioni quotidiane e universali… Ci completiamo, noi plebe delle officine, con un nuovo elemento, la plebe delle galere… Ciascuno di noi potrà continuare a ribellarsi a seconda delle proprie attitudini». Laddove Blanqui “invitava” il popolo a restare massa di manovra, inquadrata, disciplinata ed obbediente agli ordini dei suoi autoproclamatisi capi, Déjacque si rivolgeva ad ogni singolo proletario per spronarlo all’azione liberatrice, in base alle proprie capacità ed attitudini ed assieme ai complici più affini. Non c’è da meravigliarsi che lo stesso Déjacque abbia marcato a fuoco le aspirazioni dittatoriali di Blanqui: «L’autorità governativa, la dittatura, che si chiami impero o repubblica, trono o poltrona, salvatore dell’ordine o comitato di salute pubblica; che esista oggi sotto il nome di Bonaparte o domani sotto il nome di Blanqui; che esca da Ham o da Belle-Ile; che abbia come insegna un’aquila o un leone impagliato… la dittatura non è che lo stupro della libertà ad opera della virilità corrotta, ad opera dei sifilitici».
Anche qui, sentirsi vicini all’uno o all’altro non è indifferente e costituisce una scelta di campo inequivocabile.
C’è un altro aspetto di Blanqui che a qualche attento occhio rapace dev’essere sembrato meritevole di essere rispolverato — il suo opportunismo. Ostentando un certo disinteresse per le questioni teoriche ed un forte attaccamento ai soli problemi materiali dell’insurrezione, Blanqui è un pioniere di una tendenza oggi assai di moda negli ambienti sovversivi: il tatticismo (ricorso spregiudicato a manovre o espedienti per ottenere da altri quanto si desidera) in nome della tattica (tecnica d’impiego e di manovra dei mezzi militari). I suoi studiosi sono soliti usare il termine eclettismo per descrivere il suo abile e interessato volteggiare fra diverse posizioni. La sua concezione dell’insurrezione come risultato di una mossa strategica, e non come fatto sociale, lo portava alla conclusione che il fine giustifichi tutti i mezzi. Per lui non contava il modo, ma il risultato, ovvero l’effettiva conquista del potere politico. Ecco perché, nonostante la sua inclinazione per le cospirazioni, nel 1848 cercò di dirigere un movimento democratico favorevole alla partecipazione elettorale. Come ebbe a ricordare il suo compagno Edouard Vaillant, già suo portavoce al congresso della Prima Internazionale a Londra nel settembre 1871, «L’opera della rivoluzione era la distruzione degli ostacoli che ostruivano la via: suo primo dovere era “disarmare la borghesia, armare il proletariato”, armare il proletariato di tutte le forze del potere politico conquistato, preso al nemico. Allo scopo, i rivoluzionari dovevano andare all’assalto del potere, marciarvi contro per tutte le strade: agitazione, azione, parlamento ecc… Essi non si rinchiudono nella “prigione modello” di un dogmatismo qualsiasi. Non hanno alcun pregiudizio».
Questa mancanza di “pregiudizi” — che all’epoca, al di là di ogni considerazione di coerenza etica, erano semmai intuizioni dettate da un minimo di intelligenza — aveva portato Blanqui a risultati talvolta imbarazzanti. Nel 1879, pochi anni dopo aver tuonato che «bisogna finirla con il disastroso prestigio delle assemblee deliberanti», tentò senza riuscirvi di farsi eleggere deputato a Lione. Per realizzare questo lodevole progetto insurrezionale, chiese aiuto al suo amico Georges Clémenceau, allora deputato repubblicano radicale, a cui scriveva: «diventate alla Camera l’uomo dell’avvenire, il capo della rivoluzione. Essa non ha saputo né potuto trovarne uno dal 1830. Il caso gliene dà uno, non toglieteglielo». Ora, come è noto, Clémenceau farà effettivamente una grande carriera, diventando prima senatore, poi ministro degli Interni e per due volte presidente del Consiglio. Con la sua sanguinosa repressione di scioperi e rivolte culminata in diversi eccidi proletari, con la sua spietata caccia ai sovversivi di ogni colore e sfumatura, per non parlare del suo interventismo durante la prima guerra mondiale, si conquisterà il soprannome di «primo sbirro di Francia». Non si può dire che Blanqui sia stato molto lungimirante, avendo chiesto di diventare capo della rivoluzione proprio al futuro capo della reazione! Ma in fondo, non è strano. Aveva riconosciuto in Clémenceau la stoffa del leader politico, del condottiero. Non riusciva a comprendere che il potere è la tomba della rivoluzione.
Ecco perché non abbiamo motivi di rendere omaggio al cadavere di questo aspirante dittatore. Al di là forse di quello slogan e di quel libro, la sua memoria ci rimane nauseante. Nauseante come la sua potenza da Stato maggiore, il suo stile militare, il suo spirito da caserma, la sua determinazione in mimetica («I suoi amici erano convinti che la personalità in lui dominante fosse quella di un generale», scriveva il buon Dommanget). Che i suoi ammiratori, vecchi e nuovi capibastone del partito dell’insurrezione di Stato vadano pure a rimestare nella sua tomba, a respirarne con emozione i miasmi. Con i sommovimenti tellurici oggi in corso, chissà che non rimangano seppelliti assieme al loro Maestro — l’eternità attraverso il fango.
[3/12/2011]
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Utopia

Thursday, March 21st, 2013

Há algum tempo que ando a pensar escrever sobre umas quantas questões, e depois de ler alguns textos parece-me que o assunto do qual quero falar é um sentimento partilhado por outros companheiros.

Gostava de falar sobre uma necessidade que sempre senti, uma necessidade que nunca foi satisfeita, mas que pelo contrário tem ocupado cada vez mais espaço nas minhas reflexões nos últimos tempos: estou a falar da Utopia. Esta ideia assombra-me com renovada e cada vez mais forte persistência, talvez porque a sua busca se tem lenta mas inexoravelmente tornado menos obsessiva nos corações do que podemos geralmente definir como o movimento anarquista. Pelo menos esta é a minha impressão.

Talvez desiludidos com os anos que são agora percepcionados como uma acumulação de fracassos, ou talvez cansados pelos golpes repressivos (mais num sentido moral do que físico) que são sempre uma possibilidade quando estás em luta, tudo isto para depois ouvirmos que de qualquer modo nunca seremos capazes de concretizar os nossos sonhos mais selvagens… parece-me que existe uma tendência de tentarmos o mínimo: mais vale ganhar uma pequena luta para dar ânimo do que lidar com mais um falhanço apontando à vitória final. Mais vale reconfortar parte desta existência miserável do que arriscarmo-nos a nunca melhorar nada durante a tentativa permanente de a subvertermos. O forçar constante para melhorar a nossa adaptação às situações com que somos confrontados está a superar a tensão que não nos permitiria adaptarmo-nos; o frenesim e a ânsia de fazer algo, de estar activos e sentirmo-nos vivos, arriscam tornar-se um substituto da análise e da crítica necessárias para desenvolver a nossa projectualidade. Acabamos então por fazer como os outros e por falar como os outros, pensando que o uso de outra linguagem nos tornaria incompreensíveis, ameaçando isolar-nos. Todos participamos nas mesmas lutas e fazemos também as coisas exactamente da mesma maneira, usando os mesmos meios que, a longo prazo, nos esterilizam e imobilizam, para então descobrirmos que estamos todos demasiadas vezes a correr atrás do que o movimento anarquista costumava ser; abortámos as nossas capacidades criativas, sufocámos a imaginação necessária para entrar nas lutas em que embarcámos…

E essas lutas, então? Como meio de alcançar algo mais vasto e maior, estas lutas correm o risco de se tornarem um fim em si mesmas, e é neste caminho que perdemos o rasto à Utopia. As ocasiões em que falo com companheiros sobre sonhos maiores são cada vez mais raras. Não me estou a referir a essas divagações que pomos de lado assim que deixamos de fantasiar, mas a uma sublime aspiração a perseguir, algo por que lutar, algo a concretizar. Para mim, a Utopia não é uma ilha na terra do nunca, mas algo que bombeia o sangue para o coração e para o cérebro, uma ideia que nunca dá tréguas; ela é a tensão que me empurra a agir e, ao mesmo tempo, a consciência que me permite superar o medo. A Utopia é uma das razões por que sou anarquista, pois ela é a única coisa que me oferece a possibilidade de lutar, não apenas por um mundo novo, mas por algo que nunca existiu antes. Esta é a minha Utopia: a tentativa de concretizar algo que nunca foi alcançado antes, a luta por um mundo que não é este, nem tão pouco o de há alguns milhares de anos. Algo que podemos tentar apenas através de uma ruptura insurreccional, um momento que é nada mais que a abertura de uma possibilidade, que me deixa olhar para um profundo abismo e ter vertigens, deixando presente a possibilidade de que nas suas profundezas poderá estar algo completamente fascinante assim como algo absolutamente terrível. Em suma, um salto para o desconhecido sem saber de antemão como é que a sociedade que desejo tem de parecer, partindo sim daquilo que eu não desejo.

Pensando o impensável, como condição prévia para tentar o impossível.

 

«Aquele que começa pensando sobre o final quando está ainda no início,

aquele que precisa do sentimento de segurança para alcançar o fim ainda antes de começar, nunca chegará lá»

A. Libertad

L’Utopia

Thursday, March 21st, 2013
Era da un po’ di tempo che pensavo di scrivere di certi argomenti, e da alcuni scritti che ho letto mi è parso di capire che quello di cui scriverò è un sentire presente anche in altri compagni.
È una esigenza che avverto da sempre e che non solo non si è mai sopita, ma anzi negli ultimi tempi ha occupato uno spazio sempre maggiore nelle mie riflessioni: parlo dell’Utopia. La sua idea mi perseguita con nuova e rinforzata insistenza, e ciò forse è dettato dal fatto che la sua ricerca sia andata lentamente, ma inesorabilmente, se non venuta meno, quanto meno divenuta meno ossessiva all’interno di quello che, genericamente, possiamo definire come movimento anarchico. Questa almeno è la mia impressione. Forse delusi dagli anni in cui si sono incassate solo quelle che sono state avvertite come sconfitte, stanchi delle sonore bastonate che quando si lotta è sempre possibile incassare (morali più che fisiche), con la prospettiva di non vedere mai realizzati i propri sogni più proibiti, mi sembra ci sia una certa tendenza ad accontentarsi: meglio vincere una piccola lotta che dà morale, piuttosto che incassare un’altra sconfitta nella ricerca della vittoria definitiva. Meglio riuscire ad aggiustare un po’ le cose di questo misero esistente, piuttosto che rischiare di non migliorarle mai nella tentativo di sconvolgerlo definitivamente. La ricerca continua dell’adattarsi alle situazioni che offre la nostra epoca sta soppiantando la tensione che impediva di adattarsi; la frenesia del fare comunque qualcosa per sentirsi vivi ed attivi rischia di sostituire la capacità di analisi e critica utili a sviluppare una progettualità propria. Si arriva quindi a fare ciò che tutti gli altri fanno e a parlare come tutti gli altri parlano, perché usare un linguaggio diverso rende incomprensibili e si corre il rischio di restare isolati. Si partecipa tutti quanti alle stesse lotte ma, come se non bastasse, lo si fa tutti nello stesso modo, usando gli stessi mezzi che a lungo andare conducono alla sterilità, salvo scoprire che a furia di rincorrere quello che il movimento anarchico faceva, abbiamo abortito la nostra capacità immaginativa, atrofizzato la fantasia utile per proseguire le lotte che avevamo intrapreso…
E quelle stesse lotte? Da mezzo verso qualcosa di più ampio e grandioso, rischiano di trasformarsi in fine ultimo, ed è li che si perde di vista l’Utopia. Sempre più di rado mi capita di parlare, coi compagni, dei sogni più grandi, non intesi come sogni ad occhi aperti da mettere da parte una volta finito di fantasticare, ma come sublime aspirazione a cui tendere, come qualcosa da rincorrere per tentare di realizzarla. L’Utopia per me non rappresenta un’isola nel mondo che non c’è, ma una istanza che pompa il sangue al cuore e al cervello, un’idea che non dà tregua; è la tensione che mi spinge ad agire e la consapevolezza che permette di superare la paura. L’Utopia è uno dei motivi per cui sono anarchico, perché solo questo mi offre la possibilità di lottare non tanto e non solo per un mondo nuovo, quanto per qualcosa che non si è ancora mai realizzato.
È questa la mia Utopia: il tentativo di concretizzare questo qualcosa finora mai compiuto, l’aspirazione a vivere in un mondo che non sia quello attuale e nemmeno quello di qualche migliaio di anni fa. Qualcosa che è possibile tentare solo attraverso un momento di rottura insurrezionale, un momento che significherà unicamente l’apertura di una possibilità, che possa farmi affacciare su un baratro profondo e provare la vertigine, lasciando aperta la possibilità che in fondo ci sia qualcosa di terribilmente affascinante come pure di assolutamente terribile. Un salto verso l’ignoto, insomma, senza sapere in anticipo come dovrà essere la società che desidero, ma partendo da tutto ciò che non desidero.
Pensare l’impensabile, quindi, come condizione preliminare per tentare l’impossibile.
Chi contempla la meta fin dai primi passi,
chi ha bisogno della certezza di raggiungerla
prima di cominciare, non ci arriverà mai

A. Libertad

[10/11/2011]

Noi

Thursday, March 21st, 2013
Secondo la celebre frase di Mark Twain, «i redattori e le persone che hanno i vermi» sono i soli a poter utilizzare il termine «Noi», ma a quanto ci risulta nessuno ha mai fatto un’analisi approfondita dei rapporti di potere nascosti in questo monosillabo.
«Noi» suona egualitario, comune e cooperativo, anche se il più delle volte indica di fatto dei rapporti sociali gerarchici e coercitivi. Anche il fascismo, non scordiamolo, è una forma di collettività. Nella prima fase della nostra indagine, abbiamo scoperto diverse varianti del termine «Noi». Eccole, anche se si tratta di un elenco ben lungi dall’essere esaustivo:
Il Noi del leader: «… e noi daremo la nostra vita, se occorre, per proteggere la nostra patria!».
Il Noi del manager: «Quest’anno siamo riusciti ad aumentare la produttività del 25%, e questo investirà anche i profitti».
Il Noi del cuoco: «Dobbiamo pulire in fretta questa cucina in meno di mezz’ora».
Il Noi della baby-sitter: «Facciamo un po’ di capricci stasera? Forse è meglio se andiamo a letto?».
Il Noi del tifoso: «Andiamo ai mondiali quest’anno!». Ma certo che ci vai!
Il Noi dell’attivista: «Whose streets? Our streets!». Di chi precisamente?
Il Noi del partito: «Ora che le fabbriche sono in mano agli operai, possiamo iniziare la creazione del paradiso terrestre per l’Umanità!». (Un attimo prima di andare semplicemente in Siberia).
Il Noi di Zamyatin: un romanzo sottovalutato da cui Orwell si è ispirato molto per scrivere 1984.
Alcune forme di Noi fanno riferimento a corpi sociali del tutto mitici: il Noi del cittadino, ad esempio, il quale indica tutte le persone raggruppate all’interno della cittadinanza, essa stessa concessa dallo Stato-nazione, anche se alcuni cittadini hanno una posizione critica nei confronti dello Stato. Altre forme, come il Noi dell’identità, vogliono creare dei corpi sociali coscienti di se stessi (o «aventi una coscienza di sé») valorizzando una comunità mitica sulla base di una argomentazione indiretta.
Numerose sono le forme di processi collettivi che si nascondono nel «Noi». Nel mondo della politica, c’è il Noi democratico — «Abbiamo votato per l’espulsione del 40% dei nostri membri» — ed il Noi del consenso — «Abbiamo avuto bisogno di quattro settimane per scrivere un paragrafo che avrei potuto scrivere da solo in tre minuti».
Una lettura anarchica della parola «Noi» non potrebbe essere completa senza una indagine concernente il «Noi» del propagandista. Questo è un parente prossimo del Noi «plurale maiestatis»*, in quanto è tutto fuorché uno.
Il Noi del propagandista è popolare soprattutto fra i radicali che vogliono farsi passare per persone che comprendono da sole tutto un movimento sociale coerente. Nel migliore dei casi, si tratta di una immaginazione piena di speranza; ma nel peggiore, si tratta viceversa di quella del futuro despota che vagheggia la formazione di un esercito di ingranaggi, non riuscendo ad immaginare altre forme di rapporti.
Con queste ambiguità in mente, quale uso è ancora possibile della parola «Noi»?
Noi (eccolo, il «noi»!) vorremmo richiamare l’attenzione del lettore sulla nota battuta fra Tonto e Lone Ranger mentre sono inseguiti da un’orda sanguinaria di sedicenti indiani:
«Sembra che siamo nella merda, vecchio mio», constata Lone Ranger.
Al che Tonto risponde: «Cosa vuoi dire con “siamo“, uomo bianco?».
* L’idea che sta dietro il pluralis maiestatis è che il monarca parli sempre a nome del suo popolo. Allo stesso modo, si riferisce a decisioni del consiglio municipale come se fossero quelle de «la» città, invece che quelle del governo di questa città.
[trad. da Salto, n. 1, maggio 2012]

L’Egitto tra reazione e rivoluzione

Thursday, March 21st, 2013

Perforare lo spettacolo

È vero che quanto accade a migliaia di chilometri di distanza non è comprensibile, contrariamente a quanto succede appena dietro l’angolo? Che è possibile farsi un’idea unicamente di quello che conosciamo, di sentire il contesto nel quale siamo cresciuti? Ed è per questo che abbiamo poco da dire a proposito di un ambiente nel quale non abbiamo mai passeggiato, o di un luogo di cui non siamo originari? Che chi ha visto mezzo mondo deve per forza avere l’ultima parola? Che possiamo dire qualcosa a patto di aver letto dieci libri? È come se fossimo alla ricerca dello «specialista», di qualcuno a cui concedere una certa autorità in materia. Qualcuno «di laggiù», o magari un giornalista. Qualcuno a cui si potrebbe credere, «così è», e che ci permetta di smettere di riflettere per conto nostro. E inoltre: che ci bombardi con «i fatti» e stimoli in tal modo assolutamente tutto, tranne una nostra riflessione relativa alle «possibilità».

È incontestabile che certe conoscenze siano necessarie se si desidera discutere di un determinato soggetto. Non possiamo semplicemente dire «qualsiasi cosa», imballandola in una apparenza di verità. Non difendo qui il diritto di dire scempiaggini. Ciò di cui parlo è d’introdurre un’altra dimensione, nei concetti fissati legati alle conoscenze e nello spettro secolare dell’autorità, della cultura e dell’esperto (presunto tale per via del suo vissuto). Si tratta di una maniera più gioiosa di avvicinare la discussione, di un modo in ogni caso che rompe con la rigidità dei ruoli professore e allievo passivo, senza tuttavia spazzare via con un manrovescio l’importanza dello studio.

Parliamo di una sperimentazione, di un tentativo di abbordare in altro modo le conoscenze, di considerarle come uno stimolo che faciliti la fermentazione delle idee, come un innesco per pensare da sé, come un invito a partire alla ricerca… Una sperimentazione che la faccia finita con un rapporto nei confronti delle conoscenze e delle idee che pone (nel migliore dei casi!) chi ascolta in una posizione che gli lascia la possibilità di porre domande critiche, entrando quasi in competizione con chi avrebbe la parola. Questa maniera di essere critici entra perfettamente nei quadri della società, perché non butta a mare i ruoli impartiti.

Tale sperimentazione non comincia, né finisce, con qualche conoscenza. Essa ha bisogno di interesse, di curiosità, di passione, di capacità di mettere le cose in relazione, di una creatività che illumini le cose di una luce particolare, di un coinvolgimento nel soggetto in grado di dare un altro tenore alla discussione… La sperimentazione fornisce l’ossigeno che ci consente d’essere noi stessi, che permette di far saltare il maledetto sistema di punti e di regole della retorica, al fine di giungere ad una vera discussione, come fertilizzante per sviluppare qualcosa d’altro. La sperimentazione implica ugualmente un’altra maniera d’ascoltare, un modo che esige un vero interesse per chi parla, che esige, per un momento, di lasciare da parte i pregiudizi e di cercare di comprendere quanto viene messo in gioco. Ma attenzione, questo non vuole essere un discorso che sprona alla comprensione di posizioni insostenibili, e neppure all’obbligo di prestarvi orecchio. Si tratta di basare la discussione sul desiderio di condividere la libertà, d’incoraggiare in ciascuno e ciascuna l’amore per la libertà e la determinazione nella lotta.

L’importanza delle discussioni che organizziamo, dei testi che scriviamo, consiste nel fatto che non si limitano ad esprimere il «come sono le cose», ma sono anche, anzi soprattutto, dei tentativi di tessere legami fra il passato o l’altrove ed il presente e il qui. Così, l’accento si sposta e la riflessione riguardante l’interesse di un certo soggetto scalza il «no! – sì!». Lo scopo non è più di arrivare a la verità (che deve sempre venire attestata da un’autorità), ma ad idee, riflettendo, collegando le cose. Con ciò, non intendo disfarmi della responsabilità di ricercare delle informazioni che potrebbero aiutarmi a costruire classicamente una immagine più o meno coerente delle cose in cui non sono coinvolta. Ma mi sembra che la reciprocità sia primordiale nella discussione, che occorra un impegno di ognuno ed ognuna. Per farla finita col consueto dispositivo «specialista versus allievo», perché un certo argomento non può trovarsi unicamente nelle mani dell’uno, né essere consumato passivamente dall’altro. Esistono evidentemente migliaia di argomenti da affrontare e nessuno può imporre ad un altro di occuparsi a priori di questo o quello. Ma l’inclinazione alla reciprocità richiede come minimo un punto di partenza, d’apertura, una attitudine che respinga la fredda riserva «critica» che si basa spesso sulla sfiducia, talvolta a giusto titolo, talvolta no. Giacché perché darsi la pena di discutere assieme, quando non siamo interessati a scambiare qualche idea attorno ad un argomento?

 

Ho scritto questo testo perché ho la dolorosa sensazione che certi argomenti non facciano più né caldo, né freddo. «Perché l’Egitto, e non un altro paese?», mi si potrebbe domandare. Risponderei che la mia scelta è abbastanza fortuita. La ricerca di informazioni sulla situazione in Egitto mi ha incantata e ciò che leggo e vedo mi lascia ogni volta assai stupita, se non perplessa. Non sono gli avvenimenti in Egitto in sé, ma forse soprattutto ciò che questa situazione provoca in me. Il mio immaginario cristallizzato si apre ed inizio a sognare, non soltanto di un luogo sconosciuto, ma di possibilità sconosciute. In questo senso, faccio mio quello che accade là, e spero che la fiamma passerà anche a chi leggerà questo testo.

Così, l’accento da si sposta verso qui, o più precisamente verso il legame fra il là e il qui. Questo legame, al di là d’essere un dato oggettivo, è soprattutto interessante in quanto dato soggettivo. Un legame soggettivo guadagna in forza, in contenuto, in significato nella misura in cui ci sono individui che gliene danno. Nella misura in cui esistono individui che rendono vivo, in se stessi e nella loro pratica, ciò che accade là. Questo testo vuole essere un contributo a tale processo.

Se poniamo la questione in questo modo, se colleghiamo la nostra lotta con la lotta che ha luogo altrove, rompiamo radicalmente con lo spettacolo degli attori-spettatori. Così come è possibile appropriarsi delle conoscenze distillando idee e tentando di rispondere noi stessi alle domande, è possibile appropriarsi della lotta degli altri: ponendo le questioni a noi stessi, ponendole in prima persona come un «io» in lotta. In tal modo non consumiamo la lotta altrui alla maniera dei giornalisti, ma ne siamo solidali attraverso il legame che creiamo fra laggiù e qui.

Che cos’è «la» verità? Chi può dirlo? Quella che voglio avviare qui è una breve esposizione della griglia di lettura che a mio avviso è fondata. Ma, forse più importante: nella mia immaginazione, mi ritrovo a fianco di quegli altri, in quelle strade, grido per la libertà e mi chiedo quali contributi potremmo dare al fine di unire le diverse conflittualità qui. È il mio amore per la libertà di ognuno ed ognuna che mi spinge a creare un legame fra me, qui e quegli altri, laggiù.

Per tornare al primo paragrafo di questo testo: di fatto, penso che quello che ci blocca quando viene fuori l’argomento delle insurrezioni e delle sollevazioni è che facciamo fatica ad immaginarle. Non perché avvengono troppo lontano, o perché avvengono in un altro contesto culturale, ma perché la nostra facoltà di comprensione è fissa. Abbiamo bisogno di un bagliore di fantasia quando si tratta di insurrezioni. Se questo ci spaventa e se preferiamo restare incollati alla sola verità della realtà qui ed ora, non capiremo effettivamente nulla. Ma è un esercizio facile. Immaginarsi là. E si parte.

 

Una classe media di twitter in piazza per la democrazia?

La rivoluzione egiziana è stata, fin dall’inizio, descritta dai media occidentali come «una rivoluzione della classe media di twitter», «un evento pacifico in una piazza»,  «una saggia rivoluzione per la democrazia e le libertà liberali sostenute dall’esercito». Ma questa rivoluzione difficilmente potrebbe essere qualificata come pacifica. Si tratta in effetti di una rivoluzione senza armi da fuoco, dato che la maggior parte delle persone non ha semplicemente avuto loro accesso. Ma c’è stato un uso massiccio di pietre, bastoni, bombe di vernice e bottiglie molotov all’indirizzo della polizia. Sono state erette barricate in piazza Tahrir, fatte con veicoli della polizia fumanti. C’è stato l’incendio dell’enorme torre del partito di Mubarak, durato tre giorni e tre notti. Dappertutto ci sono stati commissariati di polizia invasi dalle fiamme.

Questa rivoluzione non può nememno essere tacciata d’essere una  «rivoluzione della classe media». Fai solo qualche passo, lascia piazza Tahrir ed entra nel quartiere Bulaq, dove molte persone si nascondono nel corso delle sommosse e delle manifestazioni nelle case o nei vicoli. Un quartiere la cui popolazione globalmente povera da anni è tormentata dal potere e dagli speculatori immobiliari, dove si resiste alle espulsioni e alle deportazioni verso le periferie situate ai bordi del deserto che circonda Il Cairo. Numerose persone che hanno partecipato alle occupazioni di Tahrir provengono da questo quartiere.

Dà un’occhiata alla storia della lotta contro lo sfruttamento in Egitto, ad esempio allo sciopero e alle lotte nel settore tessile a Mahalla nel 2006, che hanno segnato l’inizio degli scontri e delle sommosse che hanno sconvolto il paese per mesi. È una storia che è tornata in auge durante queste giornate d’inverno, con la caduta di Mubarak. Il corso abituale delle cose era paralizzato dall’occupazione della piazza, dalle manifestazioni, dagli scontri, dai raduni e dalle sommosse, ma anche dagli scioperi selvaggi e non controllabili. In altre parole: una rivoluzione non cade dal cielo (al contrario della manna e di altri enigmi religiosi, a proposito dei quali non occorre porsi interrogativi), ma possiede una storia, costruita dal conflitto sociale e portatrice di sperimentazione di maniere che mirano a rispondere all’oppressione.

A proposito di questa «rivoluzione per la democrazia e le libertà dei liberali (libertà liberali? non so)»… In effetti esistono forze politiche democratiche in campo e anche liberali; quelli che consapevolmente operano per la loro rivoluzione politica e che conferiscono alla libertà un significato che non ci sta a cuore. Non è un po’ riduttivo limitare il sollevamento di milioni di persone ad un desiderio di rappresentazione parlamentare? Secondo me, quando le strade del Cairo si riempiono di grida in favore della libertà, è impossibile vedervi solo una rivendicazione di libertà politica. Si tratta di un desiderio di libertà ben più profondo. Si tratta di un desiderio che abbraccia la vita. Di un desiderio di libertà in tutti gli ambiti, in una società che non è organizzata unicamente dal dominio di un dittatore, dalla sua ragnatela e dal potere militare, di una società sotto il giogo della tirannia economica e del terrorismo patriarcale. Se ascoltiamo questo grido di libertà, non si tratta a mio avviso soltanto di Mubarak, il quale costituisce un bersaglio necessario, ma non isolato. È anche una questione di schiavitù, di patriarcato, di polizia, di oppressione della vita e delle pulsioni provate quotidianamente. Libertà, in contrasto con le catene con cui abbiamo vissuto tutti questi anni. Rompere queste catene dà allora l’immensa forza che abbiamo potuto provare all’inizio del 2011, e che genera ancora rabbia. Un desiderio di democrazia e di libertà liberali, in altre parole, una rivoluzione politica, potrebbe mobilitare una tale forza? È lo slogan «Pane, libertà, giustizia sociale!» («Aish, Horreya, Adala Egtema’eya») ad aver fatto la rivoluzione, non «O Signore, dacci dei leader democratici!».

 

Dall’unità contro Mubarak verso la libertà dei fratelli musulmani e dell’esercito?

Un altro mito consiste nel dire che l’esercito era favorevole alla rivoluzione. Ricordiamo semplicemente che lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) sotto la direzione di Tantawi non è ovviamente solo un potere militare, ma anche politico ed economico. L’esercito egiziano possiede ad esempio numerose fabbriche. Va da sé che la proporzione di beni domestici che vi vengono prodotti è trascurabile in confronto alla produzione di armi, una produzione maggiore dell’intera produzione bellica dell’Africa e dell’America Latina messe insieme. Quando Mubarak faceva annunciare alla televisione che avrebbe trasmesso il potere allo SCAF e a Tantawi, non faceva altro che vigilare sul mantenimento di una parte dell’ordine nel paese. Piuttosto dell’atto disperato di un dittatore che sapeva di avere i giorni contati, mi sembra che sia stata anzitutto una scelta matura e ponderata che il dittatore non ha preso da solo, scelta che gli ha risparmiato lo sbarco di eserciti occidentali, com’è avvenuto di recente col meno razionale di Gheddafi.

In breve, l’esercito prometteva di trasmettere il potere dopo qualche mese ad un parlamento, cosa che non è stata ancora fatta per diverse ragioni politiche, e nel frattempo governa il paese. Gli orribili fratelli musulmani, facendosi passare per gli eroi della rivoluzione, aspirano a diventare la principale formazione politica, ma tuttavia non presentano un candidato alla presidenza. Dopo la loro prima vittoria elettorale, i fratelli musulmani hanno concluso un accordo dichiarando di non partecipare più alle proteste, in attesa della trasmissione dei poteri. È in questo momento che gli Stati Uniti li hanno riconosciuti come interlocutori.

Ma prima di perderci del tutto nello spazio della politica, che ci sarà sempre ostile, torniamo alla vera storia: quella della strada. E qui sono numerose le persone che non hanno mai smesso di protestare, contro l’esercito, per la continuazione della rivoluzione. Del resto i fratelli musulmani vengono trattati sempre più spesso come traditori della rivoluzione, cosa che forse potrebbe scatenare una bella attitudine antipolitica. La manifestazione del gennaio 2012 contro lo SCAF la dice lunga: è terminata con scontri fra manifestanti e i fratelli musulmani che cercavano d’impedire ai primi di raggiungere il parlamento. In quel momento hanno dichiarato che «la legittimità proviene adesso dal parlamento, non più dalla piazza». Insulti ed oggetti sono volati da una parte all’altra, fino a che i fratelli musulmani non sono stati costretti a fuggire. L’anniversario della rivoluzione, il 25 febbraio 2012, è stato ugualmente significativo per distinguere quelli che volevano detenere il potere politico e ristabilire l’ordine, e quelli che volevano continuare la rivoluzione. Mentre lo SCAF ed i fratelli musulmani invitavano a celebrare l’anniversario, in molti sono stati visti scendere a piazza Tahrir non per festeggiare, ma per proseguire la rivoluzione.

 

Revolution, what’s in a name?

In definitiva, la questione che si impone è la seguente: «si tratta di una rivoluzione?».

In questo articolo è il termine che è stato fino ad ora utilizzato, senza spiegazioni, allo scopo di non complicare le cose fin dall’inizio. Ma abbozziamo qui quello che intendiamo per rivoluzione, facendo una distinzione fra una rivoluzione politica, dove il potere politico è sostituito da un altro e dove ogni cambiamento proviene dallo Stato; e la rivoluzione sociale, che sovverte la vita sconvolgendo i rapporti sociali e stimolando la libera sperimentazione. Ci riferiamo ad esempio ai rapporti fra uomini e donne, fra giovani e vecchi, fra padroni e servi, ecc. Una rivoluzione che forza l’apertura verso nuovi modi di vivere, di riflettere la vita, un’apertura che rende possibile l’organizzazione del vivere-insieme secondo questi nuovi rapporti alla vita e agli altri.

Se parliamo di rivoluzione sociale, penso che non si possano vedere le cose in maniera «statica»; non si può infatti considerare «la rivoluzione» come uno stato di fatto minato che cede il posto ad un nuovo stato di fatto. Piuttosto è una trasformazione, che grazie ad un nuovo rapporto con la vita, sovverte le basi su cui era organizzato il vecchio mondo. Una trasformazione che attacca i potenti odierni e la loro legittimità, e fa così vivere la possibilità di qualcos’altro. Non è necessariamente l’«albero del potere che cade» a fare la rivoluzione sociale, ma sono i nuovi rapporti fra le persone e la vita, creati nel corso della trasformazione. E ancor più: l’immaginario dei possibili che si apre all’infinito. I limiti di ciò che è pensabile ed immaginabile sono spostati in permanenza durante la trasformazione rivoluzionaria. Finché si continua ad attaccare ciò che opprime, si continua a creare spazio per organizzare la vita in altre maniere, per mantenere aperto ed assalire l’orizzonte dei possibili.

Come diceva un’anarchica di laggiù: «Molte cose sono cambiate, soprattutto quando si parla di coscienza. C’è una politicizzazione di massa, un coinvolgimento di massa, la barriera della paura è stata superata… La coscienza di ciò che è possibile è cambiata nel corso del sollevamento, molto è cambiato nei termini di ciò che possiamo immaginare. Era un bellissimo sollevamento senza capi, un sollevamento decentralizzato che ha fatto molto per rimettere in discussione lo Stato… Ma cos’è che non è cambiato? Molte cose. Ci si trova sempre più o meno sotto lo stesso regime. Si è governati direttamente dall’esercito e le forze reazionarie che hanno fatto opposizione a Mubarak sono sempre in gioco, soprattutto i fratelli musulmani. La loro alleanza con lo SCAF è diventata in questi ultimi mesi una minaccia per ogni desiderio rivoluzionario. In relazione alla coscienza e alla lotta, molte cose sono cambiate, ed ogni giorno sperimentiamo maggiore energia rivoluzionaria. Ma se parliamo di strutture statali, di sistema neoliberale dell’economia di questo paese che opprime una larga maggioranza di egiziani, tutto ciò non è cambiato, è qui che la lotta sociale è in corso».

 

Repressione e controrivoluzione

È dunque importante sottolineare oggi che quanto avvenuto nel gennaio-febbraio 2011 è ben lontano dal costituire la fine dei disordini sociali in Egitto. Le giornate invernali di inizio 2011 hanno provocato una enorme crepa nel tran-tran della società opprimente. Donne che scendevano in strada, una moltiplicazione impressionante di scioperi selvaggi, tifosi di calcio che difendevano i cortei contro la polizia e contro i mercenari assunti dal potere, «artisti» che negavano lo status dell’arte rifiutando di venderla ma consegnandola al gioco d’espressione creativa e rivoluzionaria che tutti domandavano, ecc. Ma anche, e forse soprattutto, tutte queste categorie accuratamente delimitate, senza le quali ci troviamo male a parlare, non sono più categorie, ma individui che scendono insieme per strada rivendicando pane e libertà, qui ed ora.

Oggi si tratta di «giocarsi il tutto per tutto» al fine di non cedere il minimo millimetro di questa apertura, di approfondirla e di non lasciare spazio alle forze controrivoluzionarie nella loro opera di ristabilimento dell’ordine. Di cosa hanno bisogno per ristabilire l’ordine, come possono reprimerli gli Stati e gli altri poteri? Come possono riuscire a spezzare le proteste, a canalizzarle o a recuperarle? Come ad isolare le persone le une dalle altre, a spaventarle, a far loro perdere coraggio, a fomentare gli uni contro gli altri per disperazione?

Fino ad ora né l’esercito, né i fratelli musulmani ne sono stati capaci. Anche facendo del loro meglio, non sono riusciti a far tornare la calma. La legge anti-sciopero, che lo SCAF ha promulgato nel marzo 2011 allo scopo di mettere fine alle ondate di scioperi selvaggi, viene semplicemente negata. Vero è che l’appello ad uno sciopero generale, l’11 febbraio 2012, ha avuto poca eco, imputabile in parte alla massiccia propaganda dell’esercito («lo sciopero vuole distruggere il paese»), degli imam e dei leader religiosi (che hanno definito lo sciopero un «peccato», un «crimine morale», allo stesso titolo dell’adulterio, del consumo di alcool o di carne di maiale). Nel frattempo l’esercito ha messo in atto un’altra tattica rispetto alla bruta repressione, essendosi accorto che quest’ultima non fa che attizzare la rabbia e inasprire le sommosse. Durante uno sciopero dei trasporti urbani, ad esempio, l’esercito ha impiegato il proprio personale al fine di spezzare questo sciopero. Da parte loro, i fratelli musulmani hanno più o meno recuperato l’antico sindacato ufficiale dell’epoca di Mubarak. Questo sindacato centralizzato, che era l’ultima linea di difesa di Mubarak, contrasta fortemente con l’impressionante proliferazione selvaggia di organizzazioni autonome sul e attorno al posto di lavoro.

La repressione non sembra essere capace di isolare o spaventare le persone. L’esempio più brutale e sanguinario, quello di Port Saïd, ha provocato lunghe giornate di sommosse e proteste, e questo in numerose città. Proprio come l’attacco ad una manifestante nel dicembre 2011. Le donne sentono sul collo il fiato caldo della repressione, ma restano presenti. Non molto tempo fa c’è stata una manifestazione sull’assoluzione (da parte di un tribunale militare) di soldati che avevano sottoposto a test di verginità le donne arrestate nel marzo 2011. Le manifestanti esponevano cartelloni con l’immagine di donne che si coprivano la bocca con la mano, per simboleggiare il silenzio imposto alle donne in una società patriarcale. E che pensare delle donne prese a bastonate e calci davanti agli occhi di tutti dalla polizia salafista, polizia che le ha accusate — non senza una certa ironia — di indecenza? L’esercito del resto ha aggiustato il tiro: i soldati ora sparano all’altezza degli occhi, così come si servono massicciamente di bombe lacrimogene di fabbricazione americana. Imprigionano parecchie persone e le condannano nei tribunali militari. Ma, nonostante tutto, la determinazione resta alta.

 

E quindi?

C’è molto in gioco e ci sono molte persone che non vogliono seppellire la rivoluzione, che non vogliono ricoprire la propria libertà riconquistata con una nuova schiavitù. Così come ce ne sono altre che vogliono tornare all’ordine e alla stabilità, forse persone che in fin dei conti erano soddisfatte di stare sotto Mubarak. Oggi si tratta di proseguire la sperimentazione della libertà. La sperimentazione dell’autorganizzazione della lotta come si è visto in piazza Tahrir, come si avverte nelle organizzazioni autonome di lotta su e attorno il posto di lavoro, come si prova nello sviluppo del mutuo appoggio, ecc. Si tratta di mantenere il coraggio, di non lasciarsi intimidire dalla repressione sanguinaria, di non rinunciare alla speranza rivoluzionaria. Così come si tratta di diffidare di tutti i leader, di respingere ogni politica, di non lasciarsi rappresentare in alcuna maniera (coloro che hanno tentato in piazza Tahrir di parlare in nome altrui, sono stati ogni volta messi al loro posto). La rappresentazione segna l’inizio del fatto di cedere la libertà conquistata. Si tratta di continuare a nutrire il conflitto con l’esercito, con la politica, con la schiavitù salariale, con il patriarcato e anche di abbordare altri ambiti: il nazionalismo e la religione come ostacoli alla libertà, come camicie di forza con una serie infinita di comandamenti e proibizioni.

Infine ci sembra che, a parte i presidi, le sommosse, le manifestazioni e gli scontri, si faccia sentire il bisogno di una moltiplicazione di altri metodi che mirino a destabilizzare ed a far crollare la politica e l’economia del paese. Lo sciopero è uno di questi, così come l’attacco diretto (nei confronti delle condutture del gas, delle ambasciate, dei muri che l’esercito costruisce ovunque allo scopo di controllare le manifestazioni) che dovrebbe estendersi dappertutto, ma a contatto con l’autorganizzazione, in modo da poter affrontare l’esercito e le forze islamiche che si ergeranno come organizzatori e rete di salvataggio contro la crisi, quando l’economia crollerà.

Questa intensificazione e questa moltiplicazione implica di rimettere permanentemente in discussione tutte le evidenze, tutte le norme ed i valori che fino ad ora sono stati considerati eterni.

 

 

[testo scritto nell’aprile 2012, trad. da Salto, n. 1, maggio 2012]