La guerra o la guerra

E la pace? Tutta una generazione di politici si vanta che il progetto politico ed economico dell’Unione Europea abbia prodotto già sessant’anni di pace all’interno delle sue frontiere. Come conviene alla logica autoritaria, dovremmo essere riconoscenti verso i nostri padroni per far andare d’accordo i loro interessi e non vedere il plusvalore nel massacro dei loro sudditi.
Ciò non ha impedito alle industrie belliche europee (ed ai loro fornitori – spesso di tecnologia di punta) di creare plusvalore nel mondo intero. Gli Stati europei non hanno dichiarato granché la disoccupazione tecnica dei propri eserciti, continuando a trovar loro una agenda utile altrove nel mondo.
In determinate epoche si trovano numerosi imperi, repubbliche, regimi di ogni genere che possono vantarsi di decenni di pace all’interno delle loro frontiere pur conducendo appena un po’ più lontano delle guerre permanenti. La pace ha sempre una portata ridotta, e forse anche una durata di conservazione limitata. Ecco perché la realtà ritorna piuttosto a questo: guerra qui oppure guerra là. I nazionalisti ed i patrioti fanno in fretta la loro scelta, i capitalisti possono permettersi di essere un poco flessibili ed i democratici, che non amano molto la guerra, preferiscono parlare di interventi umanitari o, nel peggiore dei casi, di guerra al terrorismo.
Una prospettiva anarchica rifiuta queste due possibilità, ma ciò ci condanna contemporaneamente a rimanere spettatori, o al ruolo di rifugiati?
L’invasione dell’Iraq ha lanciato un’ondata di opposizione e qui e là di sabotaggi della macchina di guerra, ma altri conflitti meno propizi ad un discorso anti-imperialista sono stati accolti con minore resistenza. Tuttavia, le bombe cadono e le uniformi marciano vicino alle frontiere europee. Ma di fronte ai conflitti in Libia, in Siria, in Palestina o in Ucraina si vedono principalmente prese di posizione sterili (contro i regimi, contro gli estremisti) che trovano scomodi alleati presso i dirigenti europei.
È impossibile riassumere la situazione in Siria con degli slogan pronti all’uso. Allora è meglio tacere? L’attitudine reticente degli anarchici davanti alla necessità di rischiare analisi più profonde, poggia sovente sulla critica che assimila l’analisi al giornalismo e sull’assenza di legami con anarchici del posto in grado di condividere le loro proprie esperienze. Ma queste reticenze e questo silenzio lasciano paradossalmente la parola agli esperti che salgono sui media. Le possibilità che si potrebbero scoprire nelle rappresentazioni mediatiche saranno sempre mutilate oppure non faranno che alimentare il sentimento di impotenza.
«Quanto alla sempiterna considerazione che ogni azione, ogni sentimento espresso, ogni atteggiamento faccia il gioco dell’uno o dell’altro antagonista, essa è probabilmente esatta. Il tutto è sapere se bisogna scomparire, tacere, diventare oggetti, per la sola ragione che la nostra esistenza può favorire il trionfo dell’uno sull’altro. Allorché una sola verità è eclatante: nessuno farà il nostro gioco se non lo facciamo noi stessi».
[Salto, n. 4, agosto 2014]

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