Appendice a un dibattito abortito sull’anonimato e l’attacco
Il dibattito è l’esplorazione approfondita di un argomento attraverso il confronto tra due o più parti, ciascuna delle quali con una propria posizione. Contrariamente a chi pensa che i dibattiti vadano evitati per non provocare divisioni, noi pensiamo che vadano alimentati. Perché lo scopo di un dibattito non è quello di decretare un vincitore davanti a cui genuflettersi, bensì di arricchire la consapevolezza di ognuno. I dibattiti precisano le idee. L’enunciazione e la contrapposizione di idee diverse – questo è un dibattito! – ne chiarisce i punti oscuri e ne indica i punti deboli. Cosa che serve a tutti, nessuno escluso. Serve a ciascuna delle parti in causa che partecipa al dibattito, al fine di affinare, correggere o rafforzare le proprie idee. E serve a chiunque assista al dibattito, che stabilirà da che parte stare (quale che sia, l’una, o l’altra, o nessuna delle parti in discussione).
La storia del movimento anarchico è costellata di dibattiti. Tutti utili, anche se talvolta dolorosi. Purtroppo essa è piena anche di dibattiti mancati, di idee diverse mai messe a confronto, lasciando ciascuno nelle proprie certezze (o dubbi) iniziali. Meglio così, perché in questo modo si sono evitate sterili polemiche? A nostro avviso, no; peggio così, perché in questo modo si sono impedite fertili discussioni.
Uno di questi dibattiti mancati è quello relativo all’utilizzo o meno di acronimi, rappresentanti organizzazioni vere e proprie, che rivendichino le azioni dirette realizzate contro il dominio. Dibattito che, seppure importante, ci sembra sia stato abortito sul nascere.
A livello internazionale, un’apertura a favore di tale dibattito è stata proposta dalla Lettera alla galassia anarchica apparsa sul finire del 2011. Questa lettera era una presentazione di idee favorevoli all’anonimato e contrarie all’uso di sigle organizzative rivendicative. E nel contempo parlava di prospettive insurrezionali, del concetto di informalità e di molteplicità dell’attacco.
Esattamente un anno dopo, nel novembre del 2012 [vedi qui], in occasione dell’incontro internazionale anarchico tenutosi a Zurigo, gli anarchici della Cospirazione delle Cellule di Fuoco hanno diffuso un testo che presentava le loro ragioni a favore dell’uso di sigle organizzative e contrarie all’anonimato. Inoltre esponeva alcune idee più generali sull’intervento anarchico, sia in rapporto alle «lotte intermedie» che alla formazione di gruppi di guerriglia urbana. Bene. Partendo da idee diverse, ognuna delle parti in causa ha fatto la propria presentazione. Per avviare un dibattito, non restava che iniziare a metterle a confronto. È quello che hanno fatto per esempio gli anarchici che, nell’agosto del 2013, hanno diffuso il testo intitolato L’anonimato, in cui prendevano esplicitamente spunto dallo scritto della CCF per criticare e replicare.
In occasione del Simposio internazionale anarchico tenutosi in Messico nel dicembre 2013, la CCF ha diffuso un testo (Diventiamo pericolosi… per la diffusione dell’Internazionale Nera) il cui paragrafo «FAI, sigle e anonimato della “galassia anarchica”» comincia con la seguente dichiarazione: «Siamo consapevoli della deprimente polemica fatta contro la FAI da compagni e “compagni”». Premessa indicativa, perché riduce quello che dovrebbe essere un dibattito a favore di tutti ad una polemica contro qualcuno. Inoltre opera una distinzione all’interno di chi ha cercato di avviare un simile dibattito, distinguendo fra compagni e “compagni” (?). Tale contributo fa esplicito riferimento ad alcuni testi come la Lettera alla galassia anarchica e L’anonimato, liquidando quest’ultimo come «scritto da un anarchico della tensione dell’anonimato politico […] senza alcuno spirito da compagni, [verso la CCF e la FAI]». Sarebbe stato possibile ed auspicabile un dibattito avente come scopo l’approfondimento delle idee, e proprio per evitare il blocco e la chiusura dello spazio in facili “pro” e “contro”, ma ci sembra che accuse tipo “teorici che non fanno nulla” mettano piuttosto fine alla discussione. Allora, avremmo potuto tacere e lasciar perdere. E in effetti ci saremmo volentieri risparmiati di tentare di alimentare un dibattito che – contrariamente a quanto pensavano gli autori de L’anonimato – non è evidentemente desiderato.
Quindi, se prendiamo la parola è solo perché non vorremmo che un eventuale silenzio venisse scambiato per suggestione, equivoco che purtroppo in questi giorni oscuri e tristi potrebbe nascere. Ecco perché, nonostante la sua palese inutilità, a nostro avviso è importante scrivere un’appendice ad un dibattito ormai fatto abortire. Appendice finale, che difficilmente avrà seguito, strappata controvoglia, solo per non apparire ossequiosi.
Cosa sosteneva il testo L’anonimato? Fondamentalmente due cose. Innanzitutto, in ordine di discorso ma non d’importanza, il fatto che l’anonimato sia preferibile dal punto di vista della cosiddetta “tattica”. La persistenza identitaria dà maggior spazio alla magistratura per far piovere accuse associative sui compagni, poiché invece di lasciare a polizia e magistrati l’onere d’inventare “una organizzazione” (come la repressione ha spesso fatto nella storia dell’anarchismo) nello specchio deformante del loro spettacolo repressivo, gli anarchici affascinati dall’identità organizzativa la offrono direttamente agli inquirenti. La repressione cercherà sempre di ridurre la sovversione ad una sola organizzazione (esistente o inventata), a un solo gruppo, o anche a qualche sparuto individuo, per cercare di scavare un abisso fra presunti “attori” e “spettatori” e applicare nella palude della sovversione anarchica e rivoluzionaria, alle tensioni singolari e agli atti individuali, alle affinità e alle ricomposizioni, all’informalità e alla molteplicità dell’attacco e dei metodi, uno schema che riflette la propria struttura autoritaria (dato che i giudici non conoscono nient’altro e non possono concepire l’esistenza di una sovversione diffusa e incontrollabile), con una traduzione giudiziaria di ruoli (capi, tesorieri, strateghi, artificieri, tiratori, simpatizzanti, sabotatori,…) del tutto antitetica alle idee anarchiche ed antiautoritarie. Perché tali idee partono dall’individuo – dalla capacità individuale di riflettere, di agire e di associarsi con altri nella lotta contro il potere – e rifiutano l’adesione o l’assorbimento dell’individuo da parte di strutture che ne mutilano la volontà e le idee. È ovvio che la repressione colpirà gli anarchici comunque, anche se non hanno sigle, e certamente non si tratta di vergognarsi delle proprie azioni o idee. In tal senso, la questione è semplicemente di complicare il compito alla magistratura al fine di tentare di prolungare le ostilità, di farle durare e di aprire uno spazio sempre più ampio per altri anarchici e ribelli che si lanciano in battaglia. Le azioni anonime – e per anonime intendiamo sia quelle accompagnate dal silenzio più assoluto, sia quelle seguite da rivendicazioni minime, senza sigle, o perlomeno senza sigle continuative – non facilitano il nemico nella sua opera repressiva in quanto, a parte l’atto in sé, esso deve inventarsi tutto da solo, nessuno gli dice «sono stato io», nessuno gli dà elementi in più (come per esempio certi codici linguistici utilizzati nelle rivendicazioni, una sigla organizzativa…) utili ad individuarne gli autori.
A questa osservazione, avanzata ne L’anonimato attraverso una citazione dell’Odissea, gli anarchici della CCF non rispondono. Si limitano a sostenere che «la conoscenza superficiale è peggio dell’ignoranza» e a ricordare che «Ulisse, lasciando l’isola di Polifemo, urla dalla sua nave: “Io, Ulisse, ti ho accecato…”». Terribile è il suono stridente di chi si arrampica sugli specchi. Ulisse rivendica il suo atto solo dopo aver abbandonato l’isola del nemico, quando ritiene di essere al sicuro sulla sua nave (per altro, contro il parere dei suoi stessi compagni). In altre parole, rivendica la sua azione solo quando pensa che la guerra con i Ciclopi sia ormai finita. Giacché, finché la guerra è in corso, rimane zitto.
Ma tralasciamo i miti letterari. Il secondo punto de L’anonimato è che solo l’assenza di identità emergenti sulle altre, anche per via delle strumentalizzazioni dei mass-media, permette l’uguaglianza. Dove non ci sono leader, non ci sono seguaci. Dove non ci sono celebrità, non ci sono ammiratori. Dove non c’è qualcuno che emerge, nessuno annaspa. Nell’oscurità dell’anonimato, tutti sono uguali. Che senso ha fare quel passo in più rispetto agli altri oscuri insorti che attaccano il potere?
Nel contributo al Simposio in Messico si legge che «La FAI è la comunità invisibile [sic!] dove i desideri d’attacco contro la nostra era si incontrano». Ma perché il desiderio di attacco contro la nostra era dovrebbe incontrarsi solo nello spazio striminzito di tre lettere, e non nella sovversione dell’intero alfabeto? Un argomento avanzato dagli anarchici della CCF è che intendono differenziarsi dagli anarchici che corrono dietro alla sinistra. Ma perché dovrebbe essere un nome a differenziarci da inetti sindacalisti e da furbi cittadinisti, e non il ricorso stesso all’azione diretta come espressione di una conflittualità permanente, e non solo scaltramente alternata? Si legge anche che «le azioni parlano da sé tramite i comunicati, perché prendono le distanze dall’opposizione “anarchica”, che qualche volta potrebbe bruciare una banca nel nome dei “poveri e contro la plutocrazia del capitale” al fine di dimostrare che almeno qualcosa la fa». No, irascibili cellule. Non riuscirete a venderci questo confusionismo. O le azioni parlano da sé, oppure parlano tramite le rivendicazioni. Non è la stessa cosa, non lo è mai stata. Secondo voi, le azioni parlano attraverso i comunicati. Secondo noi, parlano da sé. Ed è questo il nodo della questione.
Non occorre andare lontano per trovare qualche esempio significativo. Lo scorso 1 novembre, ad Atene, qualcuno ha fatto fuoco contro alcuni membri di Alba Dorata. Due fascisti sono morti. Un’azione che parla da sola. Con i fascisti non si discute, non si tratta, non si domanda allo Stato democratico di far arretrare le sue truppe d’assalto. No, li si combatte direttamente, senza mediazioni, con tutti i metodi di attacco che si ritengono appropriati. Quel giorno, quando quell’azione era anonima, gli anarchici di tutto il mondo l’hanno salutata. I sovversivi di tutto il mondo l’hanno salutata. Molte persone comuni, in Grecia e nel resto del mondo, l’hanno salutata. Di cos’altro c’era bisogno? In cosa la rivendicazione giunta il 16 novembre da parte delle Squadre Rivoluzionarie Popolari Combattenti ha arricchito quell’azione? In nulla. Semmai l’ha impoverita, relegandola all’identità e all’ideologia di uno dei tanti gruppuscoli del movimento rivoluzionario. Sarebbe stato diverso se, anziché dalle SRPC, fosse stata rivendicata da GRA, o da FLG, o da BPC, o da BRKJ, o da XJT, o da ZZPPHQWX? Naturalmente no. L’anno scorso [ndt: due anni fa] alcuni compagni hanno dimostrato attraverso una precisa azione che il nucleare è vulnerabile. Che esistono uomini responsabili e che è possibile attaccarli. In cosa la rivendicazione arrivata in un secondo tempo ha arricchito l’azione? Non era quest’ultima chiara, precisa e appropriata?
Si, le azioni parlano da sé. Non hanno bisogno di altisonanti comunicati. Sono le organizzazioni combattenti ad aver bisogno di rivendicazioni per imporre la propria egemonia sul movimento, per far brillare di più la propria luce rispetto al resto della galassia rivoluzionaria, per diventarne astri di riferimento circondati da satelliti.
Si potrebbe ribattere che, anche se le azioni restano anonime, potrebbero essere state realizzate comunque per ragioni non condivisibili, o con motivazioni poco apprezzabili. O potrebbero perfino essere opera di forze sinistre, di mafie o di racket, di fascisti o dello stesso Stato. E quindi, per evitare ogni confusione e poiché la violenza non è privilegio degli anarchici o degli antiautoritari, occorre rivendicarle. Solo che nello specchio della gestione democratica della pace sociale, nello spettacolo cadaverico, le parole perdono comunque il loro significato; le idee anarchiche non possono essere diffuse che in maniera anarchica, nella lotta stessa, fuori dalle griffe di Stato; in caso contrario, vengono mutilate in funzione dei bisogni di controllo e di produzione di consenso del potere. La confusione organizzata è un aspetto basilare della repressione, se non un pilastro, ma non possiamo eliminarla con una rivendicazione, la si può superare solo negli spazi di lotta in cui le parole e i significati siano forgiati dai ribelli stessi per dialogare fra loro, senza mediazioni, senza rappresentanze.
Se gli attacchi proposti e realizzati dagli anarchici mirano a distruggere uomini e strutture del dominio, ciò che conta è la distruzione stessa. Noi vogliamo la libertà e per questo dobbiamo distruggere quanto ci soffoca. Bene. Dalla libertà, o se si preferisce dal caos, foss’anche temporaneo o effimero, possono nascere sia tendenze verso l’anarchia che tendenze verso altre cose assai meno belle. Non possiamo illuderci che ciò dipenda dalle rivendicazioni: dipenderà piuttosto dalle idee che saremo capaci di elaborare e diffondere, dalla comprensione e dall’analisi che gli anarchici sapranno fare della realtà che cambia o che viene sconvolta dagli attacchi e dalle rivolte. E torniamo ancora alla stessa questione di fondo: pensiero e dinamite, come sosteneva un anarchico di fine Ottocento. La dinamite non può sostituire le idee; le idee non possono sostituire la dinamite. Sono due aspetti intimamente legati dell’anarchismo che attacca la società autoritaria: nelle sue ideologie come nelle sue strutture, nei suoi uomini come nei suoi valori, nei suoi rapporti sociali come nei suoi sbirri. La relazione fra questi due aspetti è la prospettiva, e il dibattito dovrebbe di fatto vertere su ciò. Il problema della prospettiva non può essere risolto spedendo una pomposa rivendicazione e rafforzando una identità-organizzazione-logo, né ripetendo le dieci banalità di base dell’anarchismo o di quello che assomiglia a un credo dell’individualismo.
La CCF non ama chi si «nasconde dietro l’anonimato». Loro si sono scelti un nome e «questo nome è FAI ed è il nostro “noi”. Un “noi” collettivo…». Questo ci fa pensare a quegli ottusi militanti anarchici del passato che rimproveravano ad un Emile Henry di non essersi fatto arrestare come un Auguste Vaillant, di non aver voluto rivendicare sul posto la sua azione (perché voleva continuare ad attaccare!). La CCF propone: «lasciamo dietro di noi i teorici della galassia “anarchica” che predicano l’anonimato politico senza far nulla. Perché noi vogliamo dire la verità, una parte della tensione dell’anonimato politico essenzialmente nasconde la sua paura della repressione dietro le sue teorie». Che gli anonimi compagni restino «dietro» alla CCF, questo è certo. Considerata la smania della CCF di correre avanti, di mettersi in mostra, di prendere la parola… Ma affermare che i compagni che hanno deciso di non dare le proprie azioni in pasto ai mass-media, di voler continuare ad essere «individui oscuri fra altri oscuri individui», lo facciano solo per nascondere la propria inattività o il timore della repressione, ecco una dimostrazione del circolo vizioso. Un argomento perfetto per annullare ogni dibattito: chi critica lo fa solo perché non fa nient’altro ed ha paura.
Ma il desiderio di rimanere anonimi esprime al tempo stesso il rifiuto di ogni avanguardismo ed il tentativo di sottrarsi alle grinfie della repressione al fine di prolungare le ostilità, non la vergogna per le proprie azioni. D’altronde, la smania rivendicazionista non è sempre esistita. Forse che Ravachol, Henry, Novatore, Di Giovanni… si “nascondevano” dietro l’anonimato? No, agivano semplicemente. Senza bisogno di rimirarsi nello specchio mediatico che riflette di continuo il proprio logo identitario. E quando le loro azioni non erano chiare o comprensibili, era il movimento anarchico intero – attraverso i dibattiti, i giornali, i manifesti, gli opuscoli… – a cercare di farle comprendere, poiché in fondo esse appartenevano a tutti coloro che si riconoscevano nella lotta anarchica. Così, il pensiero e la dinamite cercavano di andare mano nella mano, due aspetti dell’anarchismo, nello spazio della prospettiva di lotta. Ma già, quella era la Vecchia Anarchia.
Oggi sentiamo evocare sempre più una “Nuova Anarchia”. Quanto sia ridicola questa pretesa lo dimostra il nome stesso. È dallo scorso millennio che gli anarchici di Spagna e d’Italia, di Francia e di Argentina, di qui e di là… sono cresciuti con nelle orecchie il monotono ritornello dei vecchi militanti anarcosindacalisti, secondo cui i veri anarchici sono solo quelli appartenenti alla FAI (Federación Anarquista Ibérica, Federazione Anarchica Italiana, Fédération Anarchiste Française, Federación Obrera Regional Argentina…). Fuori dalla FAI non c’è salvezza, solo ambiguità. Al di fuori delle organizzazioni rappresentative dell’anarchismo, non c’è nulla. Ebbene, oggi in tutto il mondo ci sono anarchici a ricordarci che i veri anarchici, quelli della prassi, sono solo quelli appartenenti alla… FAI (Federazione Anarchica Informale). Al limite, possono tollerare coloro che accettano di aderire alla Internazionale Nera o quelli che secondo la CCF agiscono in maniera anonima per una ragione «estetica». La Nuova Anarchia non ci sembra affatto una novità, non fa altro che riprodurre quella Vecchia: federazioni, programmi, patti, rivendicazioni, sigle e slogan roboanti.
Diversi testi hanno tentato e tentano ancora di aprire il dibattito sulla questione dell’informalità, e anche la Lettera alla galassia anarchica ha posto l’accento su questo punto. Restiamo perplessi nel vedere come si possa credere sul serio di venderci una organizzazione rivoluzionaria stabile, un acronimo permanente e formale, un metodo di agire rigido, sempre uguale e prestabilito (fare una azione, poi scrivere una rivendicazione e quindi diffonderla), facendo passare tutto ciò per informalità. Anche nel significato più semplice della parola “informale”, che indica comunque l’assenza di ogni formalizzazione, ci sembra difficile affermare che una sigla non sia una formalizzazione. Quindi, Federazione Anarchica Informale, Fronte Rivoluzionario Internazionale e quant’altro non sono organizzazioni informali. Il problema non è contendersi la paternità della parola «informale» (non siamo interessati a costruire un partito con i suoi dogmi e le sue definizioni a priori, staccato dalla lotta stessa, cioè parassitario) – è il confusionismo ad impedire un vero dibattito. Se si è partigiani della costruzione di una organizzazione anarchica combattente e permanente, basta dirlo chiaramente per essere compresi da tutti gli anarchici. Se si è partigiani di un approccio sindacalista delle lotte, che accetta la logica dell’a-poco-a-poco e delle lotte rivendicative per migliorare l’esistente al fine di far crescere la famosa “coscienza proletaria”, non serve a nulla (tranne che a seminare confusione) presentare questo approccio come se si trattasse di un approccio insurrezionale. L’informalità, in ogni caso, così come l’abbiamo sempre compresa, è il rifiuto di ogni struttura fissa, di programmi, di metodi prestabiliti, di timbri, di qualsiasi rappresentazione. L’informalità e l’organizzazione informale esistono unicamente nelle continue sperimentazioni fra compagni che approfondiscono la loro affinità e si propongono reciprocamente progetti di attacco e di lotta. L’informalità non ha testi fondatori, né rappresentanti. Esiste solo come sostegno alla lotta anarchica, agli anarchici in lotta, al fine di poter fare ciò che si desidera. Nel loro contributo, gli anarchici della CCF dicono che «Ovviamente la FAI non ha l’esclusiva. Ecco perché la nostra proposta non è la crescita quantitativa della FAI. […] La nostra proposta è di organizzare cellule armate e gruppi d’affinità, formando una rete internazionale di anarchici d’azione». Ci chiediamo allora, se la proposta è quella della moltiplicazione di gruppi d’affinità (non entreremo nel merito dell’uso di una parola come “cellula” che ricorda – almeno storicamente, ma forse quella era già la Vecchia Anarchia – la gerarchia e l’organizzazione di partito), perché la FAI? Come sostegno a questa proposta? Ma un gruppo d’affinità è l’incontro fra gli individui e l’autonomia reale di agire, non è l’elemento di base di una grande sovrastruttura, e ancor meno di una sovrastruttura prestabilita da anni. Il legame fra i gruppi d’affinità può essere l’informalità, ovvero lo scambio di idee e prospettive, l’elaborazione di progetti comuni, mai finita, sempre in evoluzione, sempre senza formalizzazione. La proposta della FAI non fa che piazzare delle griglie nel vasto campo della informalità.
Lo Stato, i partiti, le assemblee, le organizzazioni… tutte queste entità si fondano su un «noi collettivo»: cittadini, o militanti, o attivisti. L’individuo, non sanno nemmeno cosa sia. Noi al contrario amiamo l’individuo, con i suoi pensieri ed i suoi atti unici e singolari. Anche quando sono solitari, anche quando sono plurali perché si incrociano con quelli di altri individui. Per questo odiamo lo Stato ed i partiti (che sono sempre autoritari) e diffidiamo delle assemblee e delle organizzazioni (che talvolta possono essere libertarie). A differenza della CCF, non pensiamo affatto che «l’Io ribelle» possa trovare casa presso il «noi collettivo». A differenza delle diverse rivendicazioni della FAI, non ci interessa distribuire certificati di buona o cattiva condotta agli anarchici che cercano di lottare, definendo l’uno come “anarchico della prassi” e l’altro come “teorico che non fa nulla”. È ingannevole e chiude lo spazio del dibattito e dell’approfondimento la pretesa che i soli anarchici ad attaccare il potere siano quelli che sostengono la proposta della FAI e quelli che tacciono, anche quando non sono d’accordo con l’egemonia ideologica che tenta di imporre (con la forza delle cose o con altri mezzi) sull’anarchismo informale e sulle pratiche di attacco e di sabotaggio. Il dibattito e le discussioni oggi mancano terribilmente nel movimento anarchico internazionale e le proposte preconfezionate chiudono più porte e spazi per la sovversione di quanti ne aprano. È questa la preoccupazione che ci ha spinto a partecipare a questo dibattito abortito ed è la stessa che continuerà ad animarci.
[Primavera 2014]