L’Egitto tra reazione e rivoluzione
Perforare lo spettacolo
È vero che quanto accade a migliaia di chilometri di distanza non è comprensibile, contrariamente a quanto succede appena dietro l’angolo? Che è possibile farsi un’idea unicamente di quello che conosciamo, di sentire il contesto nel quale siamo cresciuti? Ed è per questo che abbiamo poco da dire a proposito di un ambiente nel quale non abbiamo mai passeggiato, o di un luogo di cui non siamo originari? Che chi ha visto mezzo mondo deve per forza avere l’ultima parola? Che possiamo dire qualcosa a patto di aver letto dieci libri? È come se fossimo alla ricerca dello «specialista», di qualcuno a cui concedere una certa autorità in materia. Qualcuno «di laggiù», o magari un giornalista. Qualcuno a cui si potrebbe credere, «così è», e che ci permetta di smettere di riflettere per conto nostro. E inoltre: che ci bombardi con «i fatti» e stimoli in tal modo assolutamente tutto, tranne una nostra riflessione relativa alle «possibilità».
È incontestabile che certe conoscenze siano necessarie se si desidera discutere di un determinato soggetto. Non possiamo semplicemente dire «qualsiasi cosa», imballandola in una apparenza di verità. Non difendo qui il diritto di dire scempiaggini. Ciò di cui parlo è d’introdurre un’altra dimensione, nei concetti fissati legati alle conoscenze e nello spettro secolare dell’autorità, della cultura e dell’esperto (presunto tale per via del suo vissuto). Si tratta di una maniera più gioiosa di avvicinare la discussione, di un modo in ogni caso che rompe con la rigidità dei ruoli professore e allievo passivo, senza tuttavia spazzare via con un manrovescio l’importanza dello studio.
Parliamo di una sperimentazione, di un tentativo di abbordare in altro modo le conoscenze, di considerarle come uno stimolo che faciliti la fermentazione delle idee, come un innesco per pensare da sé, come un invito a partire alla ricerca… Una sperimentazione che la faccia finita con un rapporto nei confronti delle conoscenze e delle idee che pone (nel migliore dei casi!) chi ascolta in una posizione che gli lascia la possibilità di porre domande critiche, entrando quasi in competizione con chi avrebbe la parola. Questa maniera di essere critici entra perfettamente nei quadri della società, perché non butta a mare i ruoli impartiti.
Tale sperimentazione non comincia, né finisce, con qualche conoscenza. Essa ha bisogno di interesse, di curiosità, di passione, di capacità di mettere le cose in relazione, di una creatività che illumini le cose di una luce particolare, di un coinvolgimento nel soggetto in grado di dare un altro tenore alla discussione… La sperimentazione fornisce l’ossigeno che ci consente d’essere noi stessi, che permette di far saltare il maledetto sistema di punti e di regole della retorica, al fine di giungere ad una vera discussione, come fertilizzante per sviluppare qualcosa d’altro. La sperimentazione implica ugualmente un’altra maniera d’ascoltare, un modo che esige un vero interesse per chi parla, che esige, per un momento, di lasciare da parte i pregiudizi e di cercare di comprendere quanto viene messo in gioco. Ma attenzione, questo non vuole essere un discorso che sprona alla comprensione di posizioni insostenibili, e neppure all’obbligo di prestarvi orecchio. Si tratta di basare la discussione sul desiderio di condividere la libertà, d’incoraggiare in ciascuno e ciascuna l’amore per la libertà e la determinazione nella lotta.
L’importanza delle discussioni che organizziamo, dei testi che scriviamo, consiste nel fatto che non si limitano ad esprimere il «come sono le cose», ma sono anche, anzi soprattutto, dei tentativi di tessere legami fra il passato o l’altrove ed il presente e il qui. Così, l’accento si sposta e la riflessione riguardante l’interesse di un certo soggetto scalza il «no! – sì!». Lo scopo non è più di arrivare a la verità (che deve sempre venire attestata da un’autorità), ma ad idee, riflettendo, collegando le cose. Con ciò, non intendo disfarmi della responsabilità di ricercare delle informazioni che potrebbero aiutarmi a costruire classicamente una immagine più o meno coerente delle cose in cui non sono coinvolta. Ma mi sembra che la reciprocità sia primordiale nella discussione, che occorra un impegno di ognuno ed ognuna. Per farla finita col consueto dispositivo «specialista versus allievo», perché un certo argomento non può trovarsi unicamente nelle mani dell’uno, né essere consumato passivamente dall’altro. Esistono evidentemente migliaia di argomenti da affrontare e nessuno può imporre ad un altro di occuparsi a priori di questo o quello. Ma l’inclinazione alla reciprocità richiede come minimo un punto di partenza, d’apertura, una attitudine che respinga la fredda riserva «critica» che si basa spesso sulla sfiducia, talvolta a giusto titolo, talvolta no. Giacché perché darsi la pena di discutere assieme, quando non siamo interessati a scambiare qualche idea attorno ad un argomento?
Ho scritto questo testo perché ho la dolorosa sensazione che certi argomenti non facciano più né caldo, né freddo. «Perché l’Egitto, e non un altro paese?», mi si potrebbe domandare. Risponderei che la mia scelta è abbastanza fortuita. La ricerca di informazioni sulla situazione in Egitto mi ha incantata e ciò che leggo e vedo mi lascia ogni volta assai stupita, se non perplessa. Non sono gli avvenimenti in Egitto in sé, ma forse soprattutto ciò che questa situazione provoca in me. Il mio immaginario cristallizzato si apre ed inizio a sognare, non soltanto di un luogo sconosciuto, ma di possibilità sconosciute. In questo senso, faccio mio quello che accade là, e spero che la fiamma passerà anche a chi leggerà questo testo.
Così, l’accento da là si sposta verso qui, o più precisamente verso il legame fra il là e il qui. Questo legame, al di là d’essere un dato oggettivo, è soprattutto interessante in quanto dato soggettivo. Un legame soggettivo guadagna in forza, in contenuto, in significato nella misura in cui ci sono individui che gliene danno. Nella misura in cui esistono individui che rendono vivo, in se stessi e nella loro pratica, ciò che accade là. Questo testo vuole essere un contributo a tale processo.
Se poniamo la questione in questo modo, se colleghiamo la nostra lotta con la lotta che ha luogo altrove, rompiamo radicalmente con lo spettacolo degli attori-spettatori. Così come è possibile appropriarsi delle conoscenze distillando idee e tentando di rispondere noi stessi alle domande, è possibile appropriarsi della lotta degli altri: ponendo le questioni a noi stessi, ponendole in prima persona come un «io» in lotta. In tal modo non consumiamo la lotta altrui alla maniera dei giornalisti, ma ne siamo solidali attraverso il legame che creiamo fra laggiù e qui.
Che cos’è «la» verità? Chi può dirlo? Quella che voglio avviare qui è una breve esposizione della griglia di lettura che a mio avviso è fondata. Ma, forse più importante: nella mia immaginazione, mi ritrovo a fianco di quegli altri, in quelle strade, grido per la libertà e mi chiedo quali contributi potremmo dare al fine di unire le diverse conflittualità qui. È il mio amore per la libertà di ognuno ed ognuna che mi spinge a creare un legame fra me, qui e quegli altri, laggiù.
Per tornare al primo paragrafo di questo testo: di fatto, penso che quello che ci blocca quando viene fuori l’argomento delle insurrezioni e delle sollevazioni è che facciamo fatica ad immaginarle. Non perché avvengono troppo lontano, o perché avvengono in un altro contesto culturale, ma perché la nostra facoltà di comprensione è fissa. Abbiamo bisogno di un bagliore di fantasia quando si tratta di insurrezioni. Se questo ci spaventa e se preferiamo restare incollati alla sola verità della realtà qui ed ora, non capiremo effettivamente nulla. Ma è un esercizio facile. Immaginarsi là. E si parte.
Una classe media di twitter in piazza per la democrazia?
La rivoluzione egiziana è stata, fin dall’inizio, descritta dai media occidentali come «una rivoluzione della classe media di twitter», «un evento pacifico in una piazza», «una saggia rivoluzione per la democrazia e le libertà liberali sostenute dall’esercito». Ma questa rivoluzione difficilmente potrebbe essere qualificata come pacifica. Si tratta in effetti di una rivoluzione senza armi da fuoco, dato che la maggior parte delle persone non ha semplicemente avuto loro accesso. Ma c’è stato un uso massiccio di pietre, bastoni, bombe di vernice e bottiglie molotov all’indirizzo della polizia. Sono state erette barricate in piazza Tahrir, fatte con veicoli della polizia fumanti. C’è stato l’incendio dell’enorme torre del partito di Mubarak, durato tre giorni e tre notti. Dappertutto ci sono stati commissariati di polizia invasi dalle fiamme.
Questa rivoluzione non può nememno essere tacciata d’essere una «rivoluzione della classe media». Fai solo qualche passo, lascia piazza Tahrir ed entra nel quartiere Bulaq, dove molte persone si nascondono nel corso delle sommosse e delle manifestazioni nelle case o nei vicoli. Un quartiere la cui popolazione globalmente povera da anni è tormentata dal potere e dagli speculatori immobiliari, dove si resiste alle espulsioni e alle deportazioni verso le periferie situate ai bordi del deserto che circonda Il Cairo. Numerose persone che hanno partecipato alle occupazioni di Tahrir provengono da questo quartiere.
Dà un’occhiata alla storia della lotta contro lo sfruttamento in Egitto, ad esempio allo sciopero e alle lotte nel settore tessile a Mahalla nel 2006, che hanno segnato l’inizio degli scontri e delle sommosse che hanno sconvolto il paese per mesi. È una storia che è tornata in auge durante queste giornate d’inverno, con la caduta di Mubarak. Il corso abituale delle cose era paralizzato dall’occupazione della piazza, dalle manifestazioni, dagli scontri, dai raduni e dalle sommosse, ma anche dagli scioperi selvaggi e non controllabili. In altre parole: una rivoluzione non cade dal cielo (al contrario della manna e di altri enigmi religiosi, a proposito dei quali non occorre porsi interrogativi), ma possiede una storia, costruita dal conflitto sociale e portatrice di sperimentazione di maniere che mirano a rispondere all’oppressione.
A proposito di questa «rivoluzione per la democrazia e le libertà dei liberali (libertà liberali? non so)»… In effetti esistono forze politiche democratiche in campo e anche liberali; quelli che consapevolmente operano per la loro rivoluzione politica e che conferiscono alla libertà un significato che non ci sta a cuore. Non è un po’ riduttivo limitare il sollevamento di milioni di persone ad un desiderio di rappresentazione parlamentare? Secondo me, quando le strade del Cairo si riempiono di grida in favore della libertà, è impossibile vedervi solo una rivendicazione di libertà politica. Si tratta di un desiderio di libertà ben più profondo. Si tratta di un desiderio che abbraccia la vita. Di un desiderio di libertà in tutti gli ambiti, in una società che non è organizzata unicamente dal dominio di un dittatore, dalla sua ragnatela e dal potere militare, di una società sotto il giogo della tirannia economica e del terrorismo patriarcale. Se ascoltiamo questo grido di libertà, non si tratta a mio avviso soltanto di Mubarak, il quale costituisce un bersaglio necessario, ma non isolato. È anche una questione di schiavitù, di patriarcato, di polizia, di oppressione della vita e delle pulsioni provate quotidianamente. Libertà, in contrasto con le catene con cui abbiamo vissuto tutti questi anni. Rompere queste catene dà allora l’immensa forza che abbiamo potuto provare all’inizio del 2011, e che genera ancora rabbia. Un desiderio di democrazia e di libertà liberali, in altre parole, una rivoluzione politica, potrebbe mobilitare una tale forza? È lo slogan «Pane, libertà, giustizia sociale!» («Aish, Horreya, Adala Egtema’eya») ad aver fatto la rivoluzione, non «O Signore, dacci dei leader democratici!».
Dall’unità contro Mubarak verso la libertà dei fratelli musulmani e dell’esercito?
Un altro mito consiste nel dire che l’esercito era favorevole alla rivoluzione. Ricordiamo semplicemente che lo SCAF (Consiglio Supremo delle Forze Armate) sotto la direzione di Tantawi non è ovviamente solo un potere militare, ma anche politico ed economico. L’esercito egiziano possiede ad esempio numerose fabbriche. Va da sé che la proporzione di beni domestici che vi vengono prodotti è trascurabile in confronto alla produzione di armi, una produzione maggiore dell’intera produzione bellica dell’Africa e dell’America Latina messe insieme. Quando Mubarak faceva annunciare alla televisione che avrebbe trasmesso il potere allo SCAF e a Tantawi, non faceva altro che vigilare sul mantenimento di una parte dell’ordine nel paese. Piuttosto dell’atto disperato di un dittatore che sapeva di avere i giorni contati, mi sembra che sia stata anzitutto una scelta matura e ponderata che il dittatore non ha preso da solo, scelta che gli ha risparmiato lo sbarco di eserciti occidentali, com’è avvenuto di recente col meno razionale di Gheddafi.
In breve, l’esercito prometteva di trasmettere il potere dopo qualche mese ad un parlamento, cosa che non è stata ancora fatta per diverse ragioni politiche, e nel frattempo governa il paese. Gli orribili fratelli musulmani, facendosi passare per gli eroi della rivoluzione, aspirano a diventare la principale formazione politica, ma tuttavia non presentano un candidato alla presidenza. Dopo la loro prima vittoria elettorale, i fratelli musulmani hanno concluso un accordo dichiarando di non partecipare più alle proteste, in attesa della trasmissione dei poteri. È in questo momento che gli Stati Uniti li hanno riconosciuti come interlocutori.
Ma prima di perderci del tutto nello spazio della politica, che ci sarà sempre ostile, torniamo alla vera storia: quella della strada. E qui sono numerose le persone che non hanno mai smesso di protestare, contro l’esercito, per la continuazione della rivoluzione. Del resto i fratelli musulmani vengono trattati sempre più spesso come traditori della rivoluzione, cosa che forse potrebbe scatenare una bella attitudine antipolitica. La manifestazione del gennaio 2012 contro lo SCAF la dice lunga: è terminata con scontri fra manifestanti e i fratelli musulmani che cercavano d’impedire ai primi di raggiungere il parlamento. In quel momento hanno dichiarato che «la legittimità proviene adesso dal parlamento, non più dalla piazza». Insulti ed oggetti sono volati da una parte all’altra, fino a che i fratelli musulmani non sono stati costretti a fuggire. L’anniversario della rivoluzione, il 25 febbraio 2012, è stato ugualmente significativo per distinguere quelli che volevano detenere il potere politico e ristabilire l’ordine, e quelli che volevano continuare la rivoluzione. Mentre lo SCAF ed i fratelli musulmani invitavano a celebrare l’anniversario, in molti sono stati visti scendere a piazza Tahrir non per festeggiare, ma per proseguire la rivoluzione.
Revolution, what’s in a name?
In definitiva, la questione che si impone è la seguente: «si tratta di una rivoluzione?».
In questo articolo è il termine che è stato fino ad ora utilizzato, senza spiegazioni, allo scopo di non complicare le cose fin dall’inizio. Ma abbozziamo qui quello che intendiamo per rivoluzione, facendo una distinzione fra una rivoluzione politica, dove il potere politico è sostituito da un altro e dove ogni cambiamento proviene dallo Stato; e la rivoluzione sociale, che sovverte la vita sconvolgendo i rapporti sociali e stimolando la libera sperimentazione. Ci riferiamo ad esempio ai rapporti fra uomini e donne, fra giovani e vecchi, fra padroni e servi, ecc. Una rivoluzione che forza l’apertura verso nuovi modi di vivere, di riflettere la vita, un’apertura che rende possibile l’organizzazione del vivere-insieme secondo questi nuovi rapporti alla vita e agli altri.
Se parliamo di rivoluzione sociale, penso che non si possano vedere le cose in maniera «statica»; non si può infatti considerare «la rivoluzione» come uno stato di fatto minato che cede il posto ad un nuovo stato di fatto. Piuttosto è una trasformazione, che grazie ad un nuovo rapporto con la vita, sovverte le basi su cui era organizzato il vecchio mondo. Una trasformazione che attacca i potenti odierni e la loro legittimità, e fa così vivere la possibilità di qualcos’altro. Non è necessariamente l’«albero del potere che cade» a fare la rivoluzione sociale, ma sono i nuovi rapporti fra le persone e la vita, creati nel corso della trasformazione. E ancor più: l’immaginario dei possibili che si apre all’infinito. I limiti di ciò che è pensabile ed immaginabile sono spostati in permanenza durante la trasformazione rivoluzionaria. Finché si continua ad attaccare ciò che opprime, si continua a creare spazio per organizzare la vita in altre maniere, per mantenere aperto ed assalire l’orizzonte dei possibili.
Come diceva un’anarchica di laggiù: «Molte cose sono cambiate, soprattutto quando si parla di coscienza. C’è una politicizzazione di massa, un coinvolgimento di massa, la barriera della paura è stata superata… La coscienza di ciò che è possibile è cambiata nel corso del sollevamento, molto è cambiato nei termini di ciò che possiamo immaginare. Era un bellissimo sollevamento senza capi, un sollevamento decentralizzato che ha fatto molto per rimettere in discussione lo Stato… Ma cos’è che non è cambiato? Molte cose. Ci si trova sempre più o meno sotto lo stesso regime. Si è governati direttamente dall’esercito e le forze reazionarie che hanno fatto opposizione a Mubarak sono sempre in gioco, soprattutto i fratelli musulmani. La loro alleanza con lo SCAF è diventata in questi ultimi mesi una minaccia per ogni desiderio rivoluzionario. In relazione alla coscienza e alla lotta, molte cose sono cambiate, ed ogni giorno sperimentiamo maggiore energia rivoluzionaria. Ma se parliamo di strutture statali, di sistema neoliberale dell’economia di questo paese che opprime una larga maggioranza di egiziani, tutto ciò non è cambiato, è qui che la lotta sociale è in corso».
Repressione e controrivoluzione
È dunque importante sottolineare oggi che quanto avvenuto nel gennaio-febbraio 2011 è ben lontano dal costituire la fine dei disordini sociali in Egitto. Le giornate invernali di inizio 2011 hanno provocato una enorme crepa nel tran-tran della società opprimente. Donne che scendevano in strada, una moltiplicazione impressionante di scioperi selvaggi, tifosi di calcio che difendevano i cortei contro la polizia e contro i mercenari assunti dal potere, «artisti» che negavano lo status dell’arte rifiutando di venderla ma consegnandola al gioco d’espressione creativa e rivoluzionaria che tutti domandavano, ecc. Ma anche, e forse soprattutto, tutte queste categorie accuratamente delimitate, senza le quali ci troviamo male a parlare, non sono più categorie, ma individui che scendono insieme per strada rivendicando pane e libertà, qui ed ora.
Oggi si tratta di «giocarsi il tutto per tutto» al fine di non cedere il minimo millimetro di questa apertura, di approfondirla e di non lasciare spazio alle forze controrivoluzionarie nella loro opera di ristabilimento dell’ordine. Di cosa hanno bisogno per ristabilire l’ordine, come possono reprimerli gli Stati e gli altri poteri? Come possono riuscire a spezzare le proteste, a canalizzarle o a recuperarle? Come ad isolare le persone le une dalle altre, a spaventarle, a far loro perdere coraggio, a fomentare gli uni contro gli altri per disperazione?
Fino ad ora né l’esercito, né i fratelli musulmani ne sono stati capaci. Anche facendo del loro meglio, non sono riusciti a far tornare la calma. La legge anti-sciopero, che lo SCAF ha promulgato nel marzo 2011 allo scopo di mettere fine alle ondate di scioperi selvaggi, viene semplicemente negata. Vero è che l’appello ad uno sciopero generale, l’11 febbraio 2012, ha avuto poca eco, imputabile in parte alla massiccia propaganda dell’esercito («lo sciopero vuole distruggere il paese»), degli imam e dei leader religiosi (che hanno definito lo sciopero un «peccato», un «crimine morale», allo stesso titolo dell’adulterio, del consumo di alcool o di carne di maiale). Nel frattempo l’esercito ha messo in atto un’altra tattica rispetto alla bruta repressione, essendosi accorto che quest’ultima non fa che attizzare la rabbia e inasprire le sommosse. Durante uno sciopero dei trasporti urbani, ad esempio, l’esercito ha impiegato il proprio personale al fine di spezzare questo sciopero. Da parte loro, i fratelli musulmani hanno più o meno recuperato l’antico sindacato ufficiale dell’epoca di Mubarak. Questo sindacato centralizzato, che era l’ultima linea di difesa di Mubarak, contrasta fortemente con l’impressionante proliferazione selvaggia di organizzazioni autonome sul e attorno al posto di lavoro.
La repressione non sembra essere capace di isolare o spaventare le persone. L’esempio più brutale e sanguinario, quello di Port Saïd, ha provocato lunghe giornate di sommosse e proteste, e questo in numerose città. Proprio come l’attacco ad una manifestante nel dicembre 2011. Le donne sentono sul collo il fiato caldo della repressione, ma restano presenti. Non molto tempo fa c’è stata una manifestazione sull’assoluzione (da parte di un tribunale militare) di soldati che avevano sottoposto a test di verginità le donne arrestate nel marzo 2011. Le manifestanti esponevano cartelloni con l’immagine di donne che si coprivano la bocca con la mano, per simboleggiare il silenzio imposto alle donne in una società patriarcale. E che pensare delle donne prese a bastonate e calci davanti agli occhi di tutti dalla polizia salafista, polizia che le ha accusate — non senza una certa ironia — di indecenza? L’esercito del resto ha aggiustato il tiro: i soldati ora sparano all’altezza degli occhi, così come si servono massicciamente di bombe lacrimogene di fabbricazione americana. Imprigionano parecchie persone e le condannano nei tribunali militari. Ma, nonostante tutto, la determinazione resta alta.
E quindi?
C’è molto in gioco e ci sono molte persone che non vogliono seppellire la rivoluzione, che non vogliono ricoprire la propria libertà riconquistata con una nuova schiavitù. Così come ce ne sono altre che vogliono tornare all’ordine e alla stabilità, forse persone che in fin dei conti erano soddisfatte di stare sotto Mubarak. Oggi si tratta di proseguire la sperimentazione della libertà. La sperimentazione dell’autorganizzazione della lotta come si è visto in piazza Tahrir, come si avverte nelle organizzazioni autonome di lotta su e attorno il posto di lavoro, come si prova nello sviluppo del mutuo appoggio, ecc. Si tratta di mantenere il coraggio, di non lasciarsi intimidire dalla repressione sanguinaria, di non rinunciare alla speranza rivoluzionaria. Così come si tratta di diffidare di tutti i leader, di respingere ogni politica, di non lasciarsi rappresentare in alcuna maniera (coloro che hanno tentato in piazza Tahrir di parlare in nome altrui, sono stati ogni volta messi al loro posto). La rappresentazione segna l’inizio del fatto di cedere la libertà conquistata. Si tratta di continuare a nutrire il conflitto con l’esercito, con la politica, con la schiavitù salariale, con il patriarcato e anche di abbordare altri ambiti: il nazionalismo e la religione come ostacoli alla libertà, come camicie di forza con una serie infinita di comandamenti e proibizioni.
Infine ci sembra che, a parte i presidi, le sommosse, le manifestazioni e gli scontri, si faccia sentire il bisogno di una moltiplicazione di altri metodi che mirino a destabilizzare ed a far crollare la politica e l’economia del paese. Lo sciopero è uno di questi, così come l’attacco diretto (nei confronti delle condutture del gas, delle ambasciate, dei muri che l’esercito costruisce ovunque allo scopo di controllare le manifestazioni) che dovrebbe estendersi dappertutto, ma a contatto con l’autorganizzazione, in modo da poter affrontare l’esercito e le forze islamiche che si ergeranno come organizzatori e rete di salvataggio contro la crisi, quando l’economia crollerà.
Questa intensificazione e questa moltiplicazione implica di rimettere permanentemente in discussione tutte le evidenze, tutte le norme ed i valori che fino ad ora sono stati considerati eterni.
[testo scritto nell’aprile 2012, trad. da Salto, n. 1, maggio 2012]